sabato 23 febbraio 2013

Vi parlo di "Sensualità" (Poesie d'amore d'amare), di Michela Zanarella


“Sensualità”
(Poesie d’amore d’amare)
Autore: Michela Zanarella
SANGEL   EDIZIONI
ISBN: 9788897040163





Leggere questa silloge di Michela Zanarella e innamorarsene da subito è la naturale conseguenza delle emozioni che “Sensualità” sa donare ad ogni fortunato lettore.
Avrei dovuto e voluto parlarvi dettagliatamente di questi splendidi versi d’amore di Michela Zanarella ma lascio che a farlo siano tre firme più degne e rappresentative del sottoscritto: Giuseppe Lorin, Luciano Somma e Gilbert Paraschiva.
E scusate se è poco!
Parole, le loro, che troverete in prefazione al libro stesso.

(Oliviero Angelo Fuina)



Prefazione di Giuseppe Lorin:

Le poesie d’Amore di Michela Zanarella sono poesie d’Amare, proprio come nel sottotitolo della silloge “Sensualità” si ricorda al lettore degli afflati poetici della giovanissima poetessa.
“Sensualità”, si può considerare il classico libro per San Valentino, da abbinare al rosso delle rose, espressione cromatica dell’amore … e della sofferenza. Lo stile dell’espressione poetica di Michela Zanarella va ricercato nelle sensazioni degli elementi primordiali che regolano la nostra vita. Sensazioni che nella formazione culturale della Zanarella assumono quell’inesauribile vena poetica, sinonimo di archetipo.
Le emozioni, che fin dalle prime poesie ci danno l’incentivo per proseguire nella lettura interpretativa, si scoprono simili a quelle sottaciute per remore arcane. La sensualità che avvolge il lettore, lentamente lo ammalia e lo cattura in vortici d’amorosi sensi, dove l’amplesso rappresenta l’unica via d’uscita all’emozione intensa.


Prefazione di Luciano Somma:

L’amore viene presentato dalla premiatissima e giovane poetessa Michela Zanarella in un dettato formale molto originale con inedite e sorprendenti espressioni lessicali.

Giusto ritmo e cadenza con ottime tematiche contraddistinguono l’opera omnia che rende agevole e piacevole la lettura.

Michela scrive tra l’altro: “Il fuoco non si ferma …”  “C’è un amore che attende/ e vive sotto pelli ardenti/ come gioco di sguardi/ tra le vigne di emozioni antiche”  ed ancora “Bacio il tuo andare in silenzio/ sotto gli archi dell’anima”
Ottima poetica, sensualissima e ricca di passionalità dunque, quella che accende dentro il fuoco e ti resta come brace ardente.

Poesie d’amore d’amare? Certamente, noi che l’amore lo abbiamo vissuto e lo amiamo, sempre alla ricerca di sensazioni nuove stagliate in un’altra dimensione che ci possa portare in alto nella sublimazione d’un atto che non è fine a se stesso ma che spazia nel tempo per diventare eternità …


Recensione di Gilbert Paraschiva:

Parlare di Michela Zanarella, Poetessa e Giornalista padovana, ma ormai quasi romana, per me, oltre ad essere un onore è anche enorme piacere perché, per quanto la “nostra” scriva poesie da appena una mezza dozzina d’anni ha raggiunto la bravura dello “Zio” (così, almeno, simpaticamente ed affettuosamente, chiama lei il sottoscritto) scrittore anche lui di articoli e poesie da almeno sei … decine d’anni, e lo ha raggiunto al punto tale, forse, da non sentirsi all’altezza di giudicare la “nipotina”!

“Il profilo di te” come pure “Il piacere che si affaccia” fa veramente sentire un qualcosa che ubriaca e quindi un piacere simile a un godere perché è davvero un godimento della vista e del cuore leggere questa meravigliosa silloge dal titolo “Sensualità”!

Bello è amarsi “senza ritegno nudi e bambini” (vedi “Fissando il fiume maturo”) e “Amare oltre il cuore” fa sentire veramente gli odori di una pelle che fa sognare senza che la stessa abbia bisogno di costosi profumi e cosmetici e “L’intimità di un bacio” fa passare a chi legge queste parole (ma indubbiamente anche a chi le ha vissute e quindi scritte) “un corteo di brividi” al punto tale che al “solo incrocio delle lingue la terra ed il cielo si fondo come per un incanto”.

“Autoritratto senza età” perché – come dice un’altra poetessa canadese, Marleine Pigeon, l’amore non ha età ed i due innamorati (tanto per usare le stesse parole della Zanarella) smisuratamente vanno a spasso nei (ma meglio “coi”) sensi verso l’infinito!

Brava Michela! La tua stupenda silloge sfiora indubbiamente l’erotismo ma senza la minima ombra di volgarità, anche se in alcune delle poesie sembra esserci lo “zampino” maschile.

Probabilmente essendo il recensore (o come dice Michela lo “zio”) uomo d’altri tempi, non si è ancora convinto che ormai la donna ha raggiunto la parità, se non, addirittura, superato l’uomo”

Gilbert Paraschiva




Michela Zanarella


Nota biografica dell’autrice
(aggiornata al dicembre 2010)


Michela Zanarella è nata a Cittadella, Padova, il 01-07-1980.
Inizia a scrivere poesie nel 2004. Personalità di Cultura e Poeti locali si accorgono del suo talento naturale che pone nell’esprimere la vita in versi.
Ottiene pubblicazioni in antologie di poesia a tiratura nazionale.
La sua poesia è tradotta in inglese, francese, spagnolo, arabo. Pubblica una sua prima raccolta di Poesie dal titolo “Credo” con l’associazione culturale MeEdusa ed ottiene subito successo di critica e di lettori che la fanno raggiungere una tiratura nazionale di oltre mille copie.
Partecipa attivamente alla diffusione della poesia intesa sia come mezzo di comunicazione sia come elemento di alta cultura nel dibattito tra i giovani.
E’ stata ospite della trasmissione radiofonica condotta da Rosanna Perozzo su Radio Cooperativa di Padova.
Alcuni articoli specifici sulla sua vocazione poetica sono presenti in quotidiani quali “Il Mattino di Padova”, “Il Gazzettino di Padova”, il “Padova, la voce dei Berici”; in settimanali come “Periodico Italiano; in trimestrali come “Orizzonti” distribuito dalla Feltrinelli, e su molti siti web, è membro dell’associazione u.i.s.p.. “Infiniti Sogni”.
Ha partecipato alla trasmissione televisiva “Poeti e Poesia” di Elio Pecora su Televita, a Roma. “Risvegli”, ed. Nuovi Poeti, è la sua seconda raccolta poetica. Ha pubblicato il terzo libro “Vita, infinito, paradisi” ed. Stravagario nel giugno 2009. A dicembre del 2009 le Edizioni GDS pubblicano la sua prima raccolta di racconti dal titolo “Convivendo con le nuvole” che ottiene un’ampia diffusione sul web.
Ha partecipato come membro di giuria al premio “Ebbri di poesia 2009” organizzato da Irene Sparagna. Ha ottenuto il terzo posto nella categoria “poesia edita” al premio “Memorial Gennaro Sparagna 2009”. E’ l’ideatrice dell’evento “Un sorso di Cultura”.
E’ stata nella commissione di Giuria del Premio Internazionale “Città di Torvaianica” 2010.
Michela Zanarella ha curato la prefazione della raccolta di fiabe “Le sette favole per imparare a sorridere” di Tiziana Mignosa, ediz. Miele.
Interviste varie, rintracciabili su Google, parlano della sua vocazione di Poeta.
Quattro sue poesie sono pubblicate nel sito ufficiale di Pier Paolo Pasolini ed altrettante nel sito ufficiale di Alda Merini.
Il prossimo anno è prevista la pubblicazione del suo primo romanzo.


«Brûlant» di Anita Borriello - Recensione di Oliviero Angelo Fuina - pubblicata sulla rivista Espressione Libri numero 2 -


TITOLO: Brûlant
AUTORE: Anita Borriello
Casa Editrice: Ebook - Amazon
Genere: Narrativa fantasy
ISBN: 9788866184676


Recensione di Oliviero Angelo Fuina: 


«Brûlant» è un avvincente romanzo d’Amore per chi dall’Amore vuole farsi coinvolgere e continuare a sognare – e la maiuscola non è casuale. Non solo, però. È molto di più: è un romanzo esoterico, magico, che scorre oltre il nostro convenzionale tempo e racchiude più esistenze. Ciò che colpisce è che nonostante queste premesse si svolge ai nostri tempi – e lo fa più che credibilmente –  fatta eccezione per dejà vu su vite passate, ottimamente inseriti, che consentono a Cristian, il protagonista, di riscoprirle.  Egli, infatti, è l'Archetipo, come viene chiamato dalle sorelle della congrega delle Brûlant, che si suddivide in tre sezioni: Roma, Praga e Parigi.
Appare subito evidente che Anita Borriello  – l’autrice – ci ha messo molto del suo riguardo a precise conoscenze esoteriche che attingono prevalentemente ai riti pagani celtici e, più genericamente, alle tradizioni sciamaniche del Nord Europa; al culto femminile della Dea. Possiamo quindi ben dire che «Brûlant» è un romanzo d’Amore ed esoterico nel quale un aspetto è il valore aggiunto dell’altro. Inoltre, il tema delle reincarnazioni e una trama avvincente per un epilogo – empaticamente sperato – che si detta con urgenza, si integrano perfettamente in un romanzo che si evidenzia per unicità e godibilità nel panorama bibliotecario attuale.
Le Brûlant sono, in termini semplicistici, streghe che operano in funzione di un unico grande scopo: curare e proteggere l'Archetipo – Cristian, peraltro inconsapevole di esserlo. Brigitte, la sua amata, è anch'essa una sacerdotessa delle Brûlant.  Tuttavia, nella congrega vige un antico patto vincolante che vieta alle adepte di interferire nella vita dell’Archetipo. Fino a all'attuale incarnazione, Brigitte ha sempre rispettato severamente tale vincolo; ora, tuttavia, decide di abbandonarsi finalmente all’Amore per Cristian, l’unico in tutta l’umanità che le è interdetto e, ciononostante, l’unico che ami da innumerevoli vite. Tacendo ovviamente la sua iniziazione quale adepta delle Brûlant, congrega peraltro sconosciuta al ragazzo. All’iniziale, obbligata e sofferta rinuncia – evento traumatico per Cristian – fa seguito la decisione di Brigitte di cedere all’Amore, spronata dall’approvazione di Loro, le anime che vivono in dimensioni superiori e che perseguono un piano ben preciso per salvare l'Umanità in procinto di entrare nella significativa Era dell’Acquario.
L’Archetipo – l’anima più antica ed evoluta sulla faccia della Terra – è letteralmente la Speranza per questa riuscita del piano e la sua attuale esistenza è l'ultima vita concessagli. Ed è anche per questo motivo che viene infine concesso ai due giovani di vivere finalmente il loro Amore. Ma come in ogni situazione conflittuale che si rispetti, non può mancare la contrapposizione tra forze del bene e del male. Queste ultime sono impersonate, nella fattispecie, dalla congrega ribelle delle Zeussites – altre sorelle di potere – parallelamente contrapposte il cui unico scopo è proprio distruggere la Speranza per l’umanità, in un ulteriore metaforico parallelismo con il mito di Pandora.

Per chi, come il sottoscritto, ha letto ed amato Brida di Coelho, si è appassionato ai libri di Brian Weiss per il tema della reincarnazione e si è sentito incuriosito e coinvolto dai libri di Marion Zimmer Bradley sulla “Saggezza di Avalon” – la Via Celtica – non può non apprezzare e farsi coinvolgere dalla lettura di Brûlant, scritto con fluidità, stile accattivante e indubbie specifiche conoscenze rituali dalla bravissima Anita Borriello. Capace, tra l’altro, di scrivere in modo più che convincente in prima persona, per quasi tutto il libro, nei panni del personaggio maschile di Cristian – a parte i primi otto capitoli in cui, per esigenze narrative, anche Brigitte narra in prima persona. Colpiscono inoltre le dettagliate e pertinenti descrizioni di Praga – come anche di Pisa e Roma – che ci trasportano nel fascino e nell'antica magia della vecchia città boema, al fianco dei protagonisti.  Le sorelle sacerdotesse, poi, non si possono non amare pur nelle loro caratteristiche uniche e ottimamente disegnate. Donne, innanzitutto, che hanno Potere, Conoscenza e antica Saggezza. Donne di Magia. Magia che è prevalentemente “ricerca spirituale per ritrovare sé stessi e la propria pace interiore. Magia che attinge dalla Natura e ne è complemento.” Le citazioni che si trovano all’inizio di ogni capitolo sono perfette e preziose. Perle di saggezza che fanno ulteriormente riflettere e predispongono interiormente alla lettura dell’avvincente dipanarsi della trama.
Degni di nota anche alcuni importanti e riscontrabili  riferimenti a Ermete Trismegisto ed alla sua Tavola di Smeraldo.
In conclusione un libro del quale consiglio caldamente la lettura e nel quale, mi ripeto, Anita Borriello ha saputo mostrarci il lato commovente ed eterno dell’Amore in tutta la sua grandezza. Grazie di cuore, anzi… Blessed be!


Anita Borriello
Anita Borriello è nata il 23 Settembre 1981 a Torre del Greco (NA), è cresciuta in Maremma e attualmente vive a Roma.
La sua formazione universitaria è iniziata con la facoltà di Lingue e Letterature Straniere a Pisa per poi concludersi con quella di Informatica Umanistica sempre presso l'ateneo pisano.
Lavora dal 2005 come WebWriter Freelance.
E' animalista e ambientalista convinta.
Nel Giugno 2011 l'esordio in libreria con "Brûlant", primo volume dell'omonima saga esoterica.
Parola di derivazione francese, Brulant significa bruciante, ardente. L'autrice l'ha scelta come titolo in onore di tutte le donne tacciate di stregoneria e/o eresia e arse vive.
"Indigo", il secondo volume della saga, è attualmente in fase di stesura.

giovedì 21 febbraio 2013

"Le finestre della pace" di Oliviero Angelo Fuina




Io penso che i colori della Pace
rifrangono da schermi d'ogni dove
sorrisi che puoi fare Oltre Cortina
parlando con Fratelli mai saputi.

Finestre del buongiorno più globale
faran vedere i sogni condivisi
mai più caini, figli di una Storia
ma uguali braccia a seminare i sogni.

Le donne saran madri come tutte
unite dalla lotta per la Vita
e ciò che fino a ieri era illusione
oggi è cittadinanza universale

e in ogni guerra morte sarà invisa
piangendo lutto senza più confini
ed ogni gioia non avrà bandiera
ma note a far danzare Madre Gaia!


(20/02/13)

mercoledì 20 febbraio 2013

"Animali ... che siete altro!", da: "L'uomo nudo con le mani in tasca"



Animali che... siete altro!
 (da pagina 91 a pagina 96)
[Romanzo ancora in fase di editing per una prossima uscita rivista e corretta]

Nella casa dei miei genitori mi aveva sempre colpito la foto di Puffi, in bella mostra di sé, tra le foto del mio matrimonio, quello di mia sorella e le foto dei loro  nipoti. I nostri figli. Quasi dissacrante se non avessi saputo il legame tra Puffi e soprattutto mia madre.
Puffi è stato il cane adottato dai miei genitori, o meglio, a loro affidato da mia sorella. Quando aveva tre anni. È  morto a sedici anni, verso la fine di quel luglio. Quando per la prima volta si era trovato senza i miei genitori e la famiglia di mia sorella. Entrambe agli ultimi loro giorni di vacanza.
Dico per la prima volta perché i miei genitori, da Puffi, non si erano mai separati. Andava anche in vacanza con loro e fino a pochi anni prima anche con me, prima di sposarmi, dal campeggio dove era il rompi...timpani dei vicini di tenda, con un senso del possesso che rasentava il patologico anche per un cane, al nostro appartamento a Metaponto. Al mio, tecnicamente. Quattro anni di cambiali firmate da me e pagate da mio padre, in sostituzione di uno stipendio mai percepito. Quell’anno Puffi era troppo stanco, problemi di cuore e di ossa, reumatismi e... insomma: era molto vecchio e proprio la sua presunta incapacità di salire ogni giorno tre piani di scale insieme ai miei genitori aveva loro consigliato di lasciarlo a casa. Dove io e mia moglie eravamo rimasti, visto che dovevamo partire in vacanza nel canonico agosto. Per non parlare del lungo viaggio in macchina che mal avrebbe sopportato: mille e più chilometri solo di andata.
C’eravamo quindi solo io e mia moglie. Andrea, nostro figlio, si sarebbe unito a noi tre anni e cinque gatti dopo, questa volta nostri.

Quella Domenica mattina di fine luglio non lo trovammo sul terrazzo di casa dove solitamente si metteva. Lo chiamammo a lungo, consapevoli che non era pressoché in grado di andarsene a zonzo, né avrebbe trovato validi motivi canini per farlo. Iniziammo anche a cercarlo nei dintorni, poi mi venne un’intuizione e dal bosco passai nel giardino di mia sorella, qualche centinaio di metri più distante. E fu lì che lo trovammo, sdraiato e rantolante nel prato dove aveva passato i suoi primi tre anni di vita.  Ci rendemmo subito conto che stava morendo. Alzò appena gli occhi a guardarci di sfuggita, con grande sforzo, e poi si lasciò  andare, agonizzante. Chiamammo il veterinario che ci confermò il sicuro epilogo che noi avevamo già percepito. Gli fece un’iniezione letale, una benedetta eutanasia, e poi acconsentì, contravvenendo alla legge ma ascoltando il proprio cuore e il suo buon senso, a lasciarcelo. Lo seppellimmo sotto un albero, nel luogo che era stata la sua prima “casa”.  Durante quell’ultima procedura tenni la mano sul suo capo, lo salutai commosso, ma non provai disperazione per la sua fine, nonostante i molti anni vissuti insieme. Il sentimento che provavo era empatico, era proiettato sull’imminente dolore che avrebbe dilaniato mia madre l’indomani, al suo previsto rientro dal mare. Già in quella mattina aveva chiamato al telefono chiedendo insistentemente di Puffi. Non ebbi cuore di dirle qualcosa. Ma lei lo presagiva, lo so, come mi confermò in seguito.
Già essere partita per la prima volta senza Puffi non le era sembrato né normale né giusto. Avevo percepito che Puffi aveva fatto di tutto per resistere fino all’arrivo di mia madre. Si mancarono davvero per poche ore, ma penso che sia stato meglio così: non aver avuto negli occhi gli ultimi istanti di agonia di Puffi è stato meglio per lei , anche se non superò mai del tutto il senso di colpa per non essere stata accanto a lui per salutarlo l’ultima volta. Senso di colpa che lei stessa scelse di indossare.

Puffi. Un bastardino nero e peloso, con la dimensione e la coda di un volpino e il muso di un pastore belga. Nato appunto da un incrocio tra queste due razze, femmina volpina e maschio pastore belga. E la volpina era stata anche sterilizzata. Non avrebbe dovuto semplicemente nascere.
Ma aveva un incontro da vivere: quello con mia madre. Per mia madre fu un terzo figlio. Né più né meno.

Io a Puffi gli volevo bene ma non ho mai avuto con lui un feeling speciale. Ci accettavamo e condividevamo spazi e momenti ma non era propriamente il mio primo pensiero del giorno.  Erano più le volte  che il suo modo casinista di fare mi dava fastidio che quelle in cui mi faceva sorridere disegnarmi . Viveva dentro il bar, trattoria e pensione che gestivamo in famiglia ed ero imbarazzato per la poca igiene che Puffi rappresentava, immerso in quell’ambiente. Ogni tre per due abbaiava agli occasionali avventori che ancora non conosceva e spesso anche ad alcuni habitué che proprio non gli andavano a genio. Lui solo sapeva perché, a ragione o torto.

Perché scrivo di un disagio? Un disagio che ovviamente è solo un effetto e non la causa illuminante È presto detto: nella mia precedente immersione nei panni affettivi, dentro la cesta degli accumuli vissuti, ho trovato ancora un amore, un altro mio amore corrisposto, che altro non era che l’ennesima panacea  che allora più che mai cercavo.
Trovando quella storia ho immediatamente compreso altre dinamiche e nella fattispecie il mio non-legame con Puffi.
Quando ho guardato quel vecchio panno dimenticato ho esclamato subito: Dingo!!!
Avete letto bene. Non Bingo, ma proprio Dingo.
Come scrisse sempre Proust (scusatemi ma ultimamente La Recherche è la mia lettura nei momenti “morti”, in attesa di altri libri che ho prenotato nella biblioteca comunale):
“Per quanto un amore si dimentichi, può determinare la forma dell’amore che seguirà”.
Proprio così.

Avevo dodici anni circa, l’età che adesso ha mio figlio. Si era nel periodo estivo e quindi potevo fermarmi anch’io lì al nostro bar fino alla chiusura, non avendo obblighi scolastici.
Era  sera, la luce ancora permaneva, anche se  ancora per poco, ero in terrazza insieme a mia sorella e ad alcuni clienti del bar che consideravamo ormai di famiglia. Come spesso succede  nei piccoli bar di paese, a gestione familiare, che diventano punti di ritrovo fissi per tante persone e si diventa come una grande famiglia.
Guardai quasi distrattamente verso la palizzata in cemento che costeggiava il prato della ferrovia, e lo vidi.
Marroncino chiaro, pelo raso e media corporatura. Per quel poco che ne capivo mi sembrava un cane giovane, forse per il suo modo di muoversi quasi...adolescenziale. Non  saprei  come descriverlo diversamente. Ma sta di fatto che lo vidi. Uscii dal mio bar, quasi senza pensarci, attraversai il piazzale e quel meticcio, quasi avvertendo le mie intenzioni, mi corse letteralmente incontro facendomi feste di gioia quasi imbarazzanti. Fu amore a prima vista e forse anche prima. Ad ogni mia carezza, ad ogni appellativo vezzeggiativo, lui faceva gran balzi reggendosi solo con le zampe posteriori e uggiolando felice. Ma la manifestazione più evidente della sua gioia era il frenetico sbatacchiare della coda talmente forte si agitava che lo faceva stare di traverso, per tre quarti, quando ricadeva su tutte e quattro le zampe.
Non aveva collare e quindi immaginai fosse un cane randagio o abbandonato. Ma questo particolare me lo fece poi notare mia madre.
Io mi ricordo che gli portai, davanti alla porta del bar dove ovviamente mi aveva seguito, una vaschetta d’acqua e del pane avanzato del giorno ai quali lui fece onore. Per fame o per educazione, non so.
So soltanto che cominciai a chiamarlo istintivamente “Dingo”.
Mi piaceva quel nome, era adatto a lui. Proprio nel pomeriggio avevo visto un documentario naturistico sull’Australia e avevo appreso dell’esistenza dei dingo, i cani selvaggi di quel continente. Inoltre aveva assonanza per me importante col nome “Ringo” , uno dei miei eroi cinematografici dell’epopea western. E poi chiamandolo con quel nome lui aumentava i movimenti a ventilatore della coda. Quelle dimostrazioni d’affetto prevalentemente nei miei confronti parvero curiose e particolarmente speciali anche a tutti quelli che avevano visto e che erano lì al bar. Familiari compresi. Già sentivo che lui era diventato il “mio” cane. Avevo una gioia che nemmeno sapevo di avere ma che riversavo totalmente  nel ricambiare le sue moine.
Si fece tardi, gli ultimi clienti andarono via e venne il momento di chiudere e abbassare le saracinesche di ferro e per me di andare su in camera a dormire. Mia madre mi chiamò dal marciapiede del bar dove ancora stavo giocando con Dingo sollecitandomi ad entrare. Ubbidii prontamente invitando il “mio” cane a seguirmi. Mia madre mi disse che lui non poteva entrare, che era un cane randagio e che doveva restarsene fuori. Mi si fermò quasi il cuore. Ma come? Non mi era proprio possibile lasciarlo fuori da solo, nella notte, mentre io stavo al caldo della mia camera! Insistetti piangendo a lungo ma lei fu irremovibile motivando con logica quella sua scelta. Ma la logica con il mio desiderio non c’entrava nulla! Fu una notte drammatica di pianti disperati, quella, per me. Come se mi avessero strappato un pezzo di cuore a mani nude.

Questo momento, che avevo in seguito rimosso, forse è la spiegazione della mia velata insofferenza per i privilegi invece accordati a Puffi da mia madre stessa. Inconsciamente incolpavo Puffi per l’incongruenza di quella condotta che aveva concesso a lui di entrare a far parte della famiglia, mentre a Dingo, a suo tempo, l’aveva  negata. Incolpavo Puffi perché incolpare mia madre mi sarebbe stato impossibile per il nostro comune vissuto e reciproco dipendere in qualche modo l’uno dall’altra. E dall’addomesticamento avuto di tutta la mia vita di ultra dodicenne. Sta di fatto che mi sentii tradito due volte ma, ripeto, fino ad ora non avevo mai nemmeno collegato i due lati diversi della stessa medaglia, anche se la mia ferita emotiva aveva trovato motivo di farsi comunque sentire. Forse.

L’indomani mattina, appena svegliato e sceso al bar, corsi fuori a cercare Dingo. Non lo vidi. Non subito. Attraversai la piazza e tornai nel punto in cui l’avevo visto la sera prima e lo chiamai. Immaginatevi la mia gioia quando lo vidi uscire correndo dal prato della ferrovia a tre quarti, di traverso, con la coda a mulinare impazzita nell’aria! Si era fermato lì a dormire, il “mio Dingo! Avallai questa sua scelta andando a portargli lì da bere e da mangiare, e tacitamente accettammo di promuovere a sua dimora quell’angolo di prato sotto l’alto abete che sovrastava in quel punto la piazza della stazione.
Dingo rimase con me un paio di mesi, notti escluse.
Fino alla mattina in cui non lo trovai più ad aspettarmi. Lo chiamai a lungo, lo cercai tutto il giorno e piansi. Piansi a lutto.
Poi l’esistenza, come sempre, prese il suo consueto passo di mutamenti in mutamenti senza mai darti l’idea di cambiare alcunché. E Dingo rimase un po’ nei miei ricordi come una ferita che da aperta lentamente prova a rimarginarsi. Fino al momento che “guarisce” e nemmeno più ti ricordi di averla avuta, quella ferita. E il pensiero di lui, perso in qualche posto, solo, da lacerante si affievolì fino a svanire nelle rinnovate mie quotidianità.

 Ciao Dingo. Ero io quello solo. Tu avevi già te stesso. Sai, adesso sto imparando a cercarmi come conviene. Quando mi sarò trovato un po’ di più, forse saprò amare senza dipendenza. Come tu già allora hai provato ad insegnarmelo. A modo tuo e con incondizionato Amore nell’unico tempo al presente che per te potesse mai esistere. Grazie, Amico mio ritrovato nella memoria e nel cuore. Grazie, Dingo.
E oggi, il tuo ricordo ancora mi illumina. In tutti i sensi.


Ci rincontreremo noi due, a metà di questa grande festa che non può mai finire. Come Richard Bach mi ha insegnato in uno dei suoi tanti libri speciali: “Nessun luogo è lontano”.

lunedì 18 febbraio 2013

Stralci dal romanzo: "C'è tempo e tempo"





(dal I Capitolo, pagine 10,11)

(...) Il treno conciliava il sonno ma il sonno non voleva proprio saperne di pagare il verbale e allora Willy fece uno sforzo per rimanere sveglio.
Provò a fare delle parole crociate ma i sussulti del treno gli rovinarono la Via Crucis in questo suo Calvario della lingua italiana. Allora si limitò a guardare il panorama fuori dal finestrino ma quasi subito, per il freddo, rientrò nello scompartimento per continuare a guardarlo più comodamente.
Un signore dirimpetto a lui gli rivolse infine la parola ma faticando a conversare al contrario, rivoltò la stessa nel giusto senso.
Era un signore dal grosso bagaglio culturale ma per fortuna nello scompartimento c’erano solo loro due ed il grosso bagaglio non impediva più di tanto.
“Scusi, le da fastidio se fumo?”
“No, no... Tanto io sono abituato alla nebbia.”
“Ah! È di Milano, lei?”
“Sì! Bravo! Da cosa l’ha capito?”
“Beh, è da quando è partito che sta guardando una fotografia del Duomo e poi noto che ha con lei tre scatoloni di panettoni nonostante siamo a Maggio.”
“Già a Maggio?! E qual è la prossima stazione?”
“Non lo so. Questo è un itinerario che non mi è abituale...”
“Quindi lei non è un abitudinario, giusto?”
“Giusto. Ho solo qualche cattiva abitudine. Ma le abitudini, se non le metti in cattività, poi diventano incontrollabili!!!
“Parole sante! Mi fa piacere che lei sia un credente!”
“Questo lo crede lei!”
“E’ vero! Ha proprio un bel intuito!”
“Le piace? L’ho preso a un saldo.”
“Io non potrei mai...! Le saldature m’infiammano gli occhi!”
“Forse allora non dovrebbe fumarsi così vicino se ha di questi problemi!”
“Ma guardi che è lei che sta fumando... Se non ci crede provi a contare le battute che abbiamo detto...”
Eh, sì... Ha proprio ragione! Ma non si preoccupi, io non ho mai fumato.”
“Sono contento per lei. Vorrà dire che andrò io a fumare in corridoio, se non le dispiace...”
“Ma si figuri! Un attimo che le do il mio indirizzo di casa; ho un corridoio che nemmeno se lo immagina. Si troverà bene, vedrà!”
“Perfetto! La prossima volta che arriverò dalle sue parti mi fermerò a fumare. Mi scusi, ma io sono arrivato.
“Arrivederci. Si ricordi che l’aspetto...”
“Lo so, lo so... L’aspetto ha la sua importanza in una persona.”
“Bene. Piacere di averla vista e conosciuta.”
“Il piacere è mio. Scende anche lei?”
“Sì, sono arrivato anch’io.”

[I due, quindi, si risalutarono e ognuno andò per la propria strada.
Questo è comunque quanto si dissero anche se non ricordo bene quali furono le battute dette da Willy e quali quelle dette dal suo dirimpettaio sul treno...]

(dal II Capitolo, pagina 13)

(...)

La più che notabile segretaria del notaio lo squadrò ben bene, lui la rigò dritta dritta e assunse un sorriso goniometrico immaginando numeri e figure non solo geometriche. Lei non raccolse il tacito invito e allora Willy licenziò il goniometrico sorriso appena assunto e disse di essere atteso dal notaio Tempo.
Lei confermò che il notaio era già parecchio tempo che lo attendeva e che il rubinetto che perdeva si trovava nel gabinetto notarile.
“Ci deve essere un equivoco” replicò il nostro scrittore.
“Ah, non dica a me quale potrebbe essere la causa... questo...equivoco... Io di idraulica non ci capisco un tubo” replicò candida la scura segretaria.
“No, senta... Se vuole posso incitare il rubinetto che perde per farlo rimontare e magari vincere, ma non mi chieda di più!”
“Ma che razza di idraulico è mai lei?”
“Sono solo un idraulico che non lo è mai stato! Io sono Guglielmo Guglielmini anche se per praticità in questo libro mi hanno sempre chiamato Willy.”
“Mi faccia controllare... Sì, qui mi risulta che le abbiamo mandato un telegramma nel  primo Capitolo. Mi scusi se non l’ho subito riconosciuta ma nel libro non c’era una sua fotografia... Non si preoccupi, comunque, a momenti il notaio la riceverà.”
“A momenti? E dove si trova?”
“Oh! Momenti è una frazione di Ora. A cinque minuti da qui.”
“Va bene, aspetterò qui per cinque minuti da ora...”
“A proposito, sa le ore?”
“Ma si capisce, certo!”
“Bene, grazie.”
I cinque minuti passarono lentamente, in assoluto silenzio, ma Willy fu in grado ugualmente di sentirli e così riuscì ad entrare dal notaio Tempo.
(...)


venerdì 15 febbraio 2013

Franca Pistellato: "Vocali in apnea", poesie erotiche di Oliviero Angelo Fuina

   

Oliviero Angelo Fuina tra visione e sguardo

Evocata la vista -suo malgrado- prima di ogni altro senso, lo sguardo di Oliviero Angelo Fuina si posa ma anche si incastra e indugia e a volte inciampa -esso stesso agente e attore, coprotagonista  od obiettivo di camera di ogni evento- su ciascuna parte del corpo abbia l'arditezza di offrirglisi, in una epifania che insieme meraviglia e conferma: emersione inconscia di elementi la cui evocatività trova di volta in volta un senso di riferimento o impasta i sensi tra loro ma sempre coincide con l'incoccarsi di una freccia che non potrà non essere scoccata. Ogni elemento presente sulla scena (fiato, pelle, pelo, umori) è contemporaneamente se stesso ed elemento pensante, è attore protagonista, vive di vita propria, ha propria volontà e proprie pulsioni. Ciascuno presenza sostitutiva ed ermafrodita, sconfinata variabile timbrica di un'orchestra che non è più maschio o femmina ma piacere.
In Oliviero Angelo Fuina la vista sta alla visione come il sonno al sogno. E tanto più ha del sogno, la sua Poesia erotica, in quanto sospesa tra la carnalità più ferale e la sua sublimazione non già nel sentimento come spesso accade in facili autocensure di risulta che indulgono in caramellose svenevolezze, quanto nella ricerca dell'assoluto, della completezza, finanche della morte come chiusura non aggettivabile, come totale perfezione, il bianco esatto in cui dovrebbe trovare la propria conclusione un orgasmo e la vita stessa. L'erotismo come una Scala di Giacobbe, l'orgasmo come completa coincidenza tra Terra e Cielo, Finis Terrae la cui conchiglia di Santiago è la visione di un orizzonte fuso, un attimo prima di essere abbacinati. E non ci stupisce. La donna è mare e terra e cielo: s'increspa, si arruffa, si distende sconfinata, si fa infinita corolla di petali.
Nulla si sottrae ai sensi segugi, nulla viene perso e nulla rifiutato. Oliviero Angelo Fuina può immaginare di sé qualunque variabile, ritrovare qualcosa di sé nel fetish, nel bondage, nei rapporti  a tre e nell'ermafroditismo (dote che appare come dono del cielo, in sé recante un potenziale di godimento che si moltiplica esponenzialmente) con la particolare inclinazione ad essere il sottomesso despota di una imperatrice implorante, servo fedele alle sue richieste di essere seviziata, magnanimo dispensatore di unguenti, docile a procurare il lenimento come somma lascivia. L'erotismo che si consuma tra i versi di Oliviero Angelo Fuina è una sorta di Guerra Santa, il cedimento delle pareti vaginali nello struggimento dello scroscio orgasmico, la Terra Promessa e il premio.
Nemmeno l'autoerotismo -e anche quello condiviso negli ambienti virtuali- rinuncia alla visione. In questo caso rievocando insieme ad essa anche la partecipazione dei sensi nella mimesi di corpi fluttuanti tra astrazione e reminiscenze, partecipazione che si trasforma in una assenza intervertebrale, intercostale, nella riesumazione contemporaneamente inumata di visceri urlanti. Ed è spesso il disincanto, ciò in cui si rapprende la consapevolezza del vuoto a perdere di talune esperienze.
Vi sono ricorrenze, nella scrittura di Oliviero Angelo Fuina: oltre ad alcune parole che si intendono particolarmente evocative e care all'autore, vi è per esempio la tendenza a ridurre articoli e congiunzioni, come nel desiderio di veder compiersi un'azione completamente pura, messa a fuoco dentro al condensatore di un ingranditore fotografico, o il frequente ricorso alla sinestesia, elemento necessario alla resa di questo contemporaneo ribollire di percezioni diverse.
Ma non è solo quella del visionario, la posizione tenuta da Oliviero Angelo Fuina di fronte agli accadimenti della sua opera: in qualche caso, nel verso finale, spesso isolato dai trattini, l'autore si concede, come una voce narrante, fuori campo, di suggerire il retrogusto, il sedimento, la percezione cruda, scondita, del corpo o dell'anima, come fosse slegata dal contesto, vigile, una seconda camera. Come se in questa espoliazione stesse il suo vero voyeurismo, come se dietro alla visione stesse ancora lo sguardo

Franca Pistellato. 


Franca Pistellato (foto di Diego Landi)


Breve presentazione ipertrofica
(A cura di Franca Pistellato)


Franca Pistellato nasce, podalica, a Mestre, nel 1967, alle 04:30 di un lunedì d'Agosto, dopo mesi di minaccia di parto prematuro e mezz'ora dopo il parto spedito di un fratello gemello grande quasi il doppio di lei. “Un brutto quarto d'ora” di mezz'ora e qualche mese. Però poi respira. Se fosse stato per sua madre, non ci sarebbe stata nessuna terza gravidanza. Invece ci fu. E fu gemellare. Questa, checché se ne possa pensare o dire, è di fatto, la sua memoria cellulare e il pregresso da cui parte quasi tutto il resto della sua vita.
L'infanzia e la giovinezza passano. Per fortuna.
Attraverso un iter rocambolesco di cui non ha ancora capito se dovrebbe vergognarsi o andare fiera, nel 1990, a 23 anni, entra in ruolo per l'insegnamento di Incisione e Stampa d'Arte al Liceo Artistico “Munari” di Vittorio Veneto, suo attuale impiego, anche se il nome della materia è cambiato.
Nella vita privata si premura di commettere tutti gli errori che le sono congeniali. Però non si è mai drogata e non ha mai preso il vizio del fumo. Non sa perché.
Nel  2000, dopo un incidente di percorso che per convenzione chiama “separazione”, comincia a scrivere con una certa regolarità. Ma siccome si tratta del diario -qualcosa che assomiglia alla diarrea cogitativa liberatoria di cui parla Gaber- della lunga psicoterapia, alla fine del trattamento butta tutto nel cassonetto della carta (sono anni che osserva la disciplina della separazione dei rifiuti) e comincia a scrivere poesie e racconti brevi. Le passa anche la sindrome del tunnel carpale che l'ha infastidita a fasi alterne fin dalla prima gravidanza. Tenta svariate volte di innamorarsi ma senza esiti davvero apprezzabili. Forse è per questo che ha dato la stura a una specie di tormentone onfaloscopico che ha chiamato “Diario Traslucido”. Che in effetti tanto lucido non è. Tra le varie cose che scrive vi sono brevi critiche letterarie e d’arte. A fianco all’attività legata alla scrittura, prosegue quella, dall’origine più antica, legata all’arte applicata e in special modo all’incisione.
Ringrazio un'ennesima volta, e pubblicamente, la cara amica Franca Pistellato per il dono delle sue preziose parole che mi onorano e danno immenso lustro aggiunto alla mia silloge.
Franca Pistellato è un'artista completa che sa emozionare e stupire sempre, sia che si offra in parole, sia che lo faccia in colori, suoni, forme e sguardi.
Ho avuto il dono e il privilegio di poter leggere in anteprima l'ancora inedito suo "Diario Traslucido" e posso affermare sin da ora che sarà una grande pubblicazione che permetterà a moltissime persone di poter finalmente conoscere l'eccellente talento di questa Grande Artista.
Grazie di cuore, Franca! Grazie, amica mia!

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giovedì 14 febbraio 2013

Prima Ragunanza di Poesia: precisazioni!!!


Prima Ragunanza di Poesia: precisazioni sul tema

Cari Poeti,
in merito alla Prima Ragunanza del 28 aprile 2013 di letture poetiche, vogliamo ricordarvi che la poesia, che sarà da Voi scritta, dovrà ricordare in versi i dettami dell’Arcadia e il valore della natura, filtrati dagli eventi attuali che coinvolgono, modificano, inquinano, distruggono i quattro elementi della nostra madre Terra e lo spirito di tutti coloro che si prodigano per la salvezza e il recupero dell’ambiente. La nostra specie è minacciata da a un eventuale conflitto termonucleare, ma anche da armi biologiche, dal terrorismo, dai cambiamenti climatici, dall’effetto serra, dall’inquinamento e dai nuovi sviluppi nel campo dell’ingegneria genetica.
È questo l’intento e l’obiettivo della rinnovata “ragunanza” nell’ambiente bucolico di Villa Pamphilj, Roma, a ricordo dei raduni organizzati da S.A.R. Cristina di Svezia.
Vi preghiamo, pertanto di seguire il tema suindicato se volete partecipare alla Ragunanza e, di conseguenza all’antologia che verrà pubblicata da ArteMuse Editrice. In considerazione del fatto che la maggior parte delle poesie che ci sono arrivate non contemplano questo tema, diamo l’opportunità a voi che già le avete inviate di comporne altre entro la data di scadenza fissata per il 4 marzo 2013.
Per partecipare, da adesso in poi, si devono riempire tutti i campi del form previsto sul nostro blog
e inviare ulteriormente la poesia a
o
Per qualsiasi informazione o dubbio, vi preghiamo di contattarci alla mailliberarte2013@gmail.com grazie.
Cordiali saluti,
Gli Autori di Liber@rte

L'appartamento di un millesimo, da "L'uomo nudo con le mani in tasca"



L’appartamento di un millesimo
(da: "L'uomo nudo con le mani in tasca)
[Romanzo ancora in fase di editing per una prossima uscita rivista e corretta]


Oggi mi sono affacciato nell’appartamento di mio padre, attiguo al mio. L’appartamento adesso è vuoto. Non senza arredi e suppellettili, no. Vuoto.  Mio padre non ci abita più lì dal 6 dicembre. Tecnicamente dal 7, quando è uscito di casa per farsi portare al cimitero.
In questo caso lui sicuramente non era più il corpo, né i pensieri, né la mente. Ecco: se potessi chiedere direttamente a lui mi direbbe per esclusione chi adesso sa di essere.
Mia moglie è uscita dalla sala dove stava cercando di imballare le molte cose appartenute prima a entrambi i miei genitori e ultimamente solo a mio padre. Mi chiama dentro per mostrarmi dei blocchetti di appunti che lui aveva riempito, chiedendomi se volevo tenerli per guardarli con comodo. Gli ho dato subito un’occhiata veloce, sfiorando con lo sguardo quell’elegante grafia che così bene avevo imparato a conoscere e ho avuto la sensazione che mio padre fosse ancora lì presente con i suoi pensieri e le sue abitudini. Ritrovarlo in vezzi familiari e modi di appuntarsi ogni istante quotidiano degno per lui di futura attenzione, me lo ha fatto ripercepire come “mio” padre. Cioè come l’unico modo che ho sempre avuto per identificarlo.
Scopro ciò che ho sempre saputo: lui viveva in tanti suoi passati, proiettati tutti contemporaneamente nel suo presente.
E ogni presente importante lo conservava per quando sarebbe stato un passato da ripensare. Ecco perché si sentiva sempre giovane: non aveva mai giorni da sommare in avanti! Solo giorni già vissuti ai quali far rivivere di volta in volta altri ipotetici percorsi se solo lui avesse eccetera, eccetera.
Io con il mio giudicarlo non ero molto distante da ciò che di lui giudicavo. Cambiava solo la direzione dell’elastico.
Lui era il muso duro a voce piena contro i suoi fallimenti o le ingiustizie passati, io l’attesa pigra aspettando che i futuri che avevo proiettato accadessero. Ecco perché non riuscivamo mai ad incontrarci. Non eravamo mai lì presenti l’uno di fronte all’altro. Solo rinvii e lucide aspettative in gestazione. Come se ai nostri appuntamenti si presentassero gli avvocati.
Paradossalmente ci stiamo incontrando adesso, nel suo passato che preventivamente lui aveva spostato in avanti e nei miei futuri con lui che devono obbligatoriamente fermarsi e retrocedere.
E ora che ci incontriamo, mi manca!
Poi lo incontro anche in una piega a segnalibro di una pagina di un romanzo che stava leggendo e in quei foglietti sparsi tra le stesse pagine con brani del libro ricopiati alla lettera. Lui riscriveva i passaggi che lo colpivano perché per il sacro rispetto che aveva dei libri – cultura contadina - non sottolineava mai a matita alcunché.  Li prendo e li leggo ed è come se ci fosse lui che per la prima volta mi dicesse: “Vedi, Oliviero. Questo passaggio mi rappresenta e quest’altro lo trovo vero; questo invece mi piace perché mi ricorda alcune mie vicende mentre qui trovo geniale la risposta del personaggio sotto accusa...”. Prima non l’aveva mai fatto.
Grazie, . Ma cosa posso ormai risponderti e condividere, io? Magari torna tra qualche tempo che ciò che ho in programma di risponderti può essere pronunciato! No. Scherzo. Posso ascoltarti e penso che vada bene così. Non credo di averlo mai fatto quando il tuo sguardo mi smascherava mio malgrado. O mascherava, non so. Non importa più, adesso. Forse io non ci sono ancora, ma tu sì.
Quindi, forse, non sei tu a mancarmi ma io stesso vicino a te.

Sono passati due mesi e non è vero, a dire il vero, che l’appartamento non si sia vuotato. A parte mio padre.
Certo, i mobili sono rimasti quasi tutti ma ogni ripiano, cassetto o mensola sono stati svuotati e il molto imballato in cartoni, razionalmente disposti. Sempre dentro l’appartamento.
E poco è stato anche buttato. Ecco. Questo discernere ed eliminare ciò che lui comunque conservava mi è sembrato un po’ sacrilego. E agivo guardandomi attorno in attesa di un suo rimprovero.
Comunque un gettar via indispensabile, va detto. È   strano come buttare vie le cose ti faccia pensare alla vita. Anche quando ”gli”  buttavo via contenitori vuoti e rotti, vecchie bollette di molti anni fa e anche raccolte enormi di fascicoli che trattavano il tema dei benefici di non accantonare nulla, bene... risentivo sempre la voce di mio padre che diceva:
“ Chi non cura un centesimo non vale un millesimo!”
E sacchi interi di centesimi  riempivano la terrazza davanti casa, pronti per la discarica, anzi, per l’isola ecologica!
Scusa, . Ma io valgo ugualmente. Non è stato nemmeno facile pensarlo, ma ci sono infine riuscito.

È  curioso come dopo due mesi io senta ancora l’odore dei suoi passi. (Scusa ancora, pà. Non intendevo di certo dire che non ti lavavi i piedi.)
Come se l’appartamento fosse diventato mio padre stesso. Sì. Penso che adesso lui sia diventato il suo ricordo. Lui è lì, in quella parte di me, che ancora non so quale io sia, che non ha mai smesso di essere ciò che mi ha mostrato in tutta la sua vita, anzi, in tutta la mia, di vita. In quella parte di me che io sono per sempre figlio. E questa parte non è un pensiero, è un sentire. Però sono sempre più convinto che le persone continuino a rimanere ciò che loro pensavano, o ciò che noi di loro pensavamo.
Anche mio padre mi aveva ricreato pensandomi. Non sono mai stato molto d’accordo sul pensiero che avrebbe dovuto rappresentarmi ai suoi occhi; ma se è per questo, continuo ancora a non sapere nemmeno quale parte dei miei pensieri stessi io sia. Adesso però posso cambiarli. Rimango in campo da solo, d’altronde.
Cambierò sicuramente quella parte di me che proiettava azioni in troppi futuri solo per dimostrare a lui qualcosa di me.
Però non vale, ! Così mi obblighi a dismettere un alibi quasi perfetto! Comunque farò tutto per me, adesso. Te lo dimostrerò!


L’appartamento, adesso, è mio. Intendo l’appartamento di mio padre. Ed è l’appartamento di un millesimo. Perché io , un millesimo, lo valgo!

(pagine 14,15,16)