giovedì 4 luglio 2013

La morte appartiene a chi resta


[romanzo in fase di editing per una prossima uscita rivista e corretta]

Domenica sono andato a salutare mia zia, l’ultima sorella di mio padre, che aveva oltrepassato il velo la notte prima. Ma forse è più corretto dire che sono andato a salutare e dare conforto, anche silenzioso, ai miei cugini, i figli di mia zia.
Zia Rocca era maggiore di quattro anni rispetto a mio padre. Una vita piena, lucida e cosciente fino all’ultimo suo secondo terreno. Una vita lunga.
La vedevo, serenamente composta col suo piccolo corpo che occupava meno di metà bara, e pensavo alla sua pacata vitalità, al suo essere stata tenace collante familiare; pensavo al suo essere quercia, alla sua forza interiore che ha sempre dato serenità e sicurezza a tutti.
E come mio padre si è spenta improvvisamente. Accendendosi di colpo alla Luce alla quale tutti noi apparteniamo. La Luce che tutti noi siamo.
Ho guardato a lungo il volto di mia zia dietro il velo ricamato che la copriva interamente, lei così elegantemente vestita e  così dignitosa nel suo ultimo riposo fisico.
La guardavo e non provavo dolore bensì serenità e gratitudine per ciò che nella sua esperienza terrena aveva donato di sé, soprattutto ai suoi cinque figli, ancora tutti presenti e raccolti intorno a lei, a casa sua.
Dicevo, la guardavo senza dolore.
Ed ho subito compreso: non potevo dispiacermi per lei perché sapevo che lei non era morta, anzi, era rinata in una vibrazione superiore. Lei non era più dentro quel piccolo corpo. Non c’era nessuna vita di cui piangere la scomparsa.

Voglio ora precisare una cosa: questo pensiero non è frutto di un dogma religioso. Assolutamente no. Io non sento veritiera la ... storiella di un Paradiso o di un Inferno finale;  di un ritorno alla “Casa del Signore” portando tra le mani il bilancio di quest’unica vita, il cui saldo determinerà il premio o la punizione. Per me non è così. È  la mia Verità profonda, ovviamente. Io sento come corretto pensare a questa vita terrena come uno dei gradini necessari e importanti verso l’ascesa di una Consapevolezza di Sé, sempre più in simbiosi con l’energia dell’Amore che permea il Tutto. Questo, lo ribadisco, è il mio personale senso del Vero che percepisco fortemente in ogni mia molecola.

Ma torniamo alla mia assenza di  dolore forse inusuale.
Ho anche pensato per un attimo che forse non sentivo dolore perché in effetti non è che avessi avuto costante frequentazione con mia zia. A parte i miei primi anni di vita nello stesso paese, a Mandello del Lario, poi ci sono state solo visite sporadiche e ritrovi occasionali in particolari eventi e ricorrenze. Era più mio padre e mia madre che tornavano a Mandello per andare a trovarla.
Ho quindi pensato alle tre morti ultime che avevano toccato direttamente il mio nucleo familiare più ristretto negli ultimi tre anni. Mia madre, mio cognato, fratello di mia moglie e quasi nostro coetaneo, e mio padre.
Ecco. Sono sicuro che non ho mai provato un senso forte di ingiustizia per la loro dipartita terrena. Certo, per quella di mio cognato è stata più dura vincere l’ingiustizia percepita perché non si poteva non pensare a quanti anni possibili aveva dovuto rinunciare. Anzi, che dovevano rinunciarvi le persone che in questa vita terrena lo amavano. Ma anche questo era opinabile. Il momento di concludere l’esperienza terrena per ognuno non è mai pronosticabile né certo. E l’amore non ha limiti temporali.


Il dolore che ho provato per mia madre era mischiato al sollievo per la fine delle sue sofferenze e dei disagi fisici patiti negli ultimissimi anni. E quel dolore provato, a ben guardare, era per me e non per lei. Era per quello strappo definitivo del cordone ombelicale terreno che percepivo; era per il ricordo degli abbracci della mia infanzia e del suo amarmi incondizionatamente come solo una madre può fare. Era per aver assistito all’impotenza sofferente negli occhi di mio padre, suo compagno di una vita per più tempo della mia vita stessa. Era un dolore empatico. Per me e per gli altri compagni di tutta la vita terrena di mia madre.
Lei, mia madre, aveva terminato il suo compito di offrirsi in questa vita. Non restava che accettare il concetto e ringraziarla per il dono della sua anima nelle nostre esistenze.
Tutto questo, per me, è stato davvero possibile, come ho già detto, solo dopo essermi perdonato per la mia fuga dalle sue sofferenze, per autodifesa, negli ultimi due anni della sua vita.

Per Ivano, mio cognato, è stato diverso.
Mi sono vestito dello straziante dolore di non vederlo più in vita, nella sua vita terrena, con sua sorella e sua madre. Con  mia moglie e mia suocera. E per suo figlio che ancora avrebbe avuto bisogno della vicinanza di suo padre.
Mia moglie con lui perdeva la memoria degli anni condivisi da giovani. Questo è stato ed è davvero uno strappo lacerante. Ma per lei in vita, non per lui che nella vita è salito oltre.
Il mio dolore, invece, era per tutti i giorni e tutti gli accadimenti che insieme a lui non avrei potuto più vivere e condividere. Per una complicità fisica che mi era venuta a mancare per sempre nel mio sempre terreno. E per quel suo donarsi allegro in ogni occasione che condivideva con me e con noi.

Per mio padre è stato addirittura uno strappo velocissimo e improvviso. Nemmeno avevo compreso che avesse finito questa vita che già l’avevamo sepolto. Anche davanti a lui, nelle poche ore che l’avevamo messo sul letto in attesa del funerale, non ho provato dolore. Sapevo e so quale tipo di esistenza aveva appena cominciato. Per rimanere fedele alla mia, di Verità, naturalmente.
Provavo sicuramente sconcerto e mi sentivo in qualche modo impreparato. Non me l’aspettavo, ecco.
Il dolore era gestire un senso di assenza per quei passi e per quella figura che non avrei e non avremmo, tutti noi, più ascoltato e rivisto nel nostro mondo. Ma di contro, riguardo a mio padre, sentivo anche un senso di completezza per ciò che riguardava la sua esperienza terrena. Mi era chiaro che il suo percorso era terminato al momento giusto e che ciò che doveva portare a se stesso e a tutti noi si era concluso.
Per lui, quasi da subito, mi si erano dettate alle labbra del cuore la parola “Giusto”. Nel senso che sentivo, oltre ogni mia vecchia logica mentale addomesticata, che lui in ogni sua scelta e in ogni suo comportamento era sempre stato giusto  nel seguire il proprio cuore e il proprio sentire. A prescindere dal nostro percepirli.
Il dolore era anche per ciò che non eravamo riusciti a dirci e che lui adesso sicuramente sapeva; ma io avevo comunque perso l’occasione che mi era stata data. Occasione di affermarmi davanti a lui e farmi capire durante la stessa comune esperienza esistenziale.
Consapevole che tempo, spazio e dimensioni sono soltanto nostri limiti umani, “poi” gli ho comunque parlato, e l’ho fatto come se lui fosse ancora davanti a me. Lui che indubbiamente ora è parte di me.
Così lontano in vita terrena e così vicino ora che vive oltre il suo corpo fisico.


Mia zia Rocca. Dunque. La serenità interiore che ho avuto nel rendere omaggio al suo corpo e ringraziarla per la sua esistenza si è in parte frantumata emotivamente nel salutare e abbracciare i miei cugini. I suoi figli. Il dolore del loro dolore empaticamente mi ha bagnato, se non proprio sommerso.
Cercare di essere presente e testimone di questo mio dolore mi ha fatto comprendere con maggiore chiarezza il mistero della “morte”.
Nessuno muore. Nessuno muore perché la morte non esiste.
Non vorrei sembrare uno che riporta frasi fatte e quasi dogmatiche, se non comprese e portate ad esperienza nel proprio vissuto, ma mi sento di affermare questo perché chi muore non appartiene più a questa vita fisica che solo del fisico e della materia conosce la morte.
La morte appartiene soltanto alla vita; appartiene solo ai vivi.
A chi “resta”, insomma.
In questo nostro pianeta del Libero Arbitrio – in questa nostra scuola a densa energia – dove vi dimoriamo per vivere determinate esperienze, l’esperienza terrena ultima è sempre un dono fatto a tutti gli studenti che restano a scuola. Chi l’esperienza della morte la vive direttamente in prima persona, nel viverla è già andato oltre al bisogno di esperienza terrena stessa. L’esperienza rimane per chi continua a viverla, come opportunità di comprendere meglio il mistero dell’esistenza.
La morte è solo materiale, è solo fisica. E si rivolge unicamente a questa nostra dimensione. Perché è solo qui, in chi resta, che può esistere.
Sul mistero più grande della vita, che è la morte, il buon Proust aveva scritto un’interessante riflessione che voglio riportare in chiusura:

“Quando ragioniamo su quel che succederà dopo la nostra morte, non cadiamo forse nell’errore di proiettare noi stessi come viventi anche allora?”

Tratto da: "L'Uomo nudo con le mani in tasca"

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