giovedì 27 giugno 2013

Ho letto "Dietro lo sguardo" di Elisabetta Bagli


Prendere posto Dietro lo sguardo della brava poetessa Elisabetta Bagli è accomodarsi dentro un privilegio, mettendo comunque in preventivo improvvisi sussulti empatici.
Io l’ho fatto in punta di piedi a sfiorare panorami e cieli di quelle fotografie, quelle cartoline dell’anima, che la nostra sensibile e talentuosa poetessa ha scritto con naturalezza e profondità d’ascolto. In un linguaggio che è quello della semplicità che pervade la poesia più vera che non media se stessa.
Sapendo di ripetere un assioma quasi inflazionato, premetto che ciò che dirò sarà frutto esclusivamente di personali sensazioni che leggere queste ottime poesie mi ha fatto ritrovare e vestirmene; infatti: Ogni poesia, una volta scritta, appartiene a chi la legge. Detto questo, in un prudente e per me rassicurante mettere le mani avanti, continuo con piacere di condivisione.

Dietro lo sguardo è una silloge che Elisabetta Bagli ha voluto costruire in due sezioni emblematicamente contrapposte: Luce e Buio. In questa esatta sequenza.
Dovessimo limitarci a considerare questo percorso saremmo erroneamente portati a valutare un suo percorso emotivo che si dipana dalla positività alla negatività, da un ampio guardare ad un limitato intravedere. Nulla di più sbagliato, anzi.
E così infatti non può essere, anche leggendo direttamente col suo attento sguardo, ogni scorcio di vissuto per come si è palesato alla percezione interiore più vera della poetessa.
Illusoriamente un’immobile percezione che Elisabetta offre alle nostre movimentate e sollecitate emozioni di lettori, empatici attori del perenne oscillare della vita, in contraddizioni e paradossi propri dell’esistenza stessa. In confini mai esattamente dettagliati e definiti dove trovano cittadinanza le più variegate sfumature di un percepire se stessi in ogni accadimento, ostaggi di un palpito vitale mai domo.

Nella parte “illuminata” della silloge trovano residenza i sogni, le speranze, le passioni a definire un amore e un amare che pregna l’intero suo condividersi e offrirsi poetico. L’inizio della primavera dove lo stupore di ciò che sta nascendo e crescendo riempie lo sguardo di bramosia quasi frenetica, a colmare la vista con tutti i colori di questa stagione che già abbraccia l’esplosione di un’estate rovente fin dall’attesa. Elisabetta alterna versi di delicata aspettativa fino al passionale immergersi in profumi intensi, va dai tepori stupiti alle ardenti immersioni dentro lave passionali ed emotive. In un loop costante che l’amore ha in dote. Ci parla del sogno e lo stupore che però hanno intrinseci l’umano timore della labilità di ogni viversi quasi onirico, di ogni imprevisto temuto dietro l’angolo dell’attimo stesso.

Ho trovato interessante e non casuale la prima poesia di questa silloge, l’unica che apparentemente si discosta dal naturale, intenso e splendido raccontarsi della poetessa.
Qui Elisabetta Bagli mostra e dà voce, in un omaggio dedicato alla scrittrice Marguerite Yourcenar, ad  Adriano e Plotina, reali personaggi de La vita di Adriano della scrittrice francese.
Confesso che mi ha incuriosito e intrigato questo ipotetico dialogo tra Adriano e la sua “madre adottiva”, Plotina, moglie di Traiano.
Ho voluto vederci quasi un suo ribadire in prefazione la purezza di un amarsi d’anima intimo e platonico, in un appagamento – anche doloroso – di un sentimento d’amicizia così intenso e scevro d’ogni possibile corruzione. Anelando comunque all’impossibilità.
La nostra è una storia/ scritta nella storia,/stesse passioni,/stessi desideri./ Denudiamo le nostre anime/ fuse nel contatto intimo/ denso e complice/ della nostra amicizia/ scevra di ogni carnale rivelazione; e ancora: (…)/ mentre apparecchiavo/ la nostra tavola/ con fiori e sogni,/perle lacrimose della mia scelta/ di esserti amica./  (“Adriano e Plotina”)
Purtroppo – mio limite – non ho letto né conosco il libro “La vita di Adriano” ma questa poesia introduttiva della Bagli mi sembra estremamente indicativa di alcune sfumature di fondo del suo sguardo a solcare molti versi di un amare più onirico e quasi immaginifico che realmente carnale.
Mi piace aggiungere che “La vita di Adriano” è stata proprio scritta, dalla Yourcenar, a Villa Adriana, a Roma. Quasi un sottolineare non casuale, da parte della poetessa, di una sua forte appartenenza alla città di Roma e alla propria solare romanità.

Tutta la prima parte di questa densa raccolta poetica, comunque, è davvero una lettura luminosa nelle scintille d’iridi del sognante sguardo che, mostrandosi, ce la offre.
Come la bellissima poesia “Dipingimi”, nella quale leggo di  scintille di stelle e colori verso il giorno ancora da arrivare, nella magia di un tempo sospeso sulle funi dell’amore e nella delicatezza di un attimo fermato d’eterno e dipinto in sguardi sussurrati e roche parole.
Ma in ognuna di queste pagine nella Luce non manca un guizzo d’ombra, una consapevolezza sottile di temporaneità d’ogni umana faccenda e vicenda. Guizzo d’ombra che staglia maggiormente i luminosi lampi emotivi che tracimano passione e Vita.
Significativa, a tale proposito, l’ultima poesia di questa “prima parte” – ideale trait d’union con la seconda parte - e, nello specifico, in questi versi:
In un attimo si è consumato l’addio./ Non volevamo. Non sapevamo lasciarci./ Gli sguardi si cercavano di nuovo./ Uno slancio./ (…);
e ancora:
Volevamo fermare il tempo,/ volevamo quell’attimo tutto per noi,/ volevamo che durasse in eterno./ Siamo lontani./ Il tempo e lo spazio non ci separano,/ la vita ci separa,/ ci ha sempre separato./ La vita continua a farci incontrare/ per un attimo.  (“Un attimo”)

Inoltrandoci nella “seconda parte” di questa silloge comunque omogenea e legittimata nel percorso emotivo – quella identificata come Buio - , entriamo inevitabilmente in stati emotivi figli di attimi ben precisi fissati allo sguardo, vissuti con una nota prevalente di negatività, o meglio, con un doloroso e impotente constatare le speranze inattese della vita.
La realtà esige risposte/ che tu non mi dai./Non chiami./ Il tuo silenzio è una dolorosa poesia./ Mi hai detto addio./;
e ancora:
Anima persa,/inquietante, vibrante/ avvinta e vinta/ continuo a vivere i ricordi/ nei miei sogni. (“Amante”)

Nel Buio del medesimo e costante sguardo poetico della Bagli, predominante è il tema dell’addio, spesso subito, e dell’ineluttabilità di una conclusione che giunge inaspettata, anzi, non voluta. Ma necessaria.
Feroce e intenso è “L’addio” della prima – splendida – poesia che apre questa seconda sezione. Poesia tra l’altro vincitrice di targa e attestato di merito al Premio Alda Merini di Poesia 2013!!!

Ma come precedentemente i guizzi d’ombra stagliavano meglio la luminosità di un vivere percepito, ora sprazzi di luce tagliano l’adombrato percepirsi, perché in ogni emozione è sempre compreso l’intero universo interiore e l’universo intimo di Elisabetta Bagli si palesa per intensità straordinaria e infinite sfaccettature come il migliore dei diamanti.
Emerge quindi sempre più un affrancarsi dovuto da una nostalgia, da un rimpianto e da una dipendenza affettiva. E la luce si riprende scorci di scena proprio nell’affermare infine un amore dovuto a se stessa, riappropriandosi di un proprio autonomo pulsare.
Mi vuoi e non puoi./ Mi amo./ Vado via,/ per me. (“Ti odio”)

Luci e ombre dell’anima, in definitiva, che si mostrano al meglio attraverso capaci e talentuose parole che la profondità più vera dello sguardo sensibile di Elisabetta Bagli scrive indelebile su pupille interiori conquistate. Di certo sulle mie.
Un privilegio e una preziosa opportunità che potranno appartenere ad ognuno che si regalerà la visione più intensa Dietro lo sguardo di Elisabetta Bagli.
Grazie del tuo prezioso condividerti, amica mia!



Oliviero Angelo Fuina

mercoledì 26 giugno 2013

Ho letto "Penombre" di Andrea Leonelli


Per me che amo condividere emozioni avvalendomi di sintesi inesplicabili, valide solo se mostrate, parlare della splendida silloge dell’amico e Poeta Andrea Leonelli in maniera didascalica e migliore di come Leonelli stesso ha saputo raccontarsi e mostrarsi – senza mai cadere in facili mediazioni – è pressoché impossibile (ovviamente, come potete constatare, ci provo ugualmente).
Il mettersi a nudo del Poeta, in questa sua silloge assume l’esatto significato (quasi letterale) di uno spogliarsi di orpelli esteticamente illusori per dare parola alle proprie ossa, al proprio sangue pulsante e ai veri silenzi che rimbombano nell'anima.

Una silloge, questa, che ha un movimento costante dal buio alla luce, in quella terra di mezzo in cui le Penombre racchiudono tutti i potenziali emotivi, così distanti e già così a portata di mano. Una coperta sempre corta che riesce però a scaldare benissimo lo sguardo e i sincroni passi di ogni lettore che avrà la buona sorte d’intraprendere questo viaggio privato ed universale

Andrea Leonelli incide le sue parole  - immaginificamente e volutamente scarne – direttamente nello sguardo del lettore, come a tagliare di netto la percezione di un sentire. Senza alcuna mediazione se non la propria fisicità che si fa specchio e portavoce di emozioni ridotte all'osso nel suo dire, ma che di fatto sono l’intera struttura scheletrica di tutta la silloge.
L’emozione infatti dominante che da subito ho percepito è quel distacco duro ma anche sorpreso tra una convenzionale normalità esistenziale e ciò che invece il suo vissuto ha portato in disillusa dote.
Usando se stesso come linea di confine:
Porto sulla pelle/ i segni di questa vita/ così corta e ancora, in conclusione: Un diario di pelle che vive. (“Memorie incastonate”).

La Morte è figura astratta e personaggio reale che si presenta spesso nelle sue liriche, come ostacolo da superare o pietra di paragone per ogni emozione che possa eluderla. Una presenza comunque che il Poeta contempla come compagna conosciuta e ineluttabile alla fine di ogni percorso che si detta esistenzialmente. Ed è proprio questa urgenza di vivere le emozioni che la Strada incrocia ad ogni passo che detta all'Autore parole decise e nette a trasmettere un momento significativo, quasi a rubarlo ad un oblio che è temuto più della morte stessa. Oblio che si veste di solitudini fredde, che disperdono e si amplificano in distanze tra sé e l’altro da sé, qualora sia vestito di illusioni.
Ed è questo voler fortemente affermare sensibili momenti che fa chiedere al Poeta Verità e Concretezza d’intenti all'amata,  agli amici e a tutto il suo mondo personale. Conscio che solitudine è anche la finzione di un abbraccio, il simulacro disattento a sostituire uno sguardo che sia davvero presente nell'interlocutore emotivo del momento.
Aspetto parole,/ carezze o morsi, /ma siano i tuoi./ Non del gioco/ ma del giocatore. (“Persi in sé”)

Le Penombre di Andrea Leonelli sono date dal luogo interiore che il suo sguardo proietta, dove i contrasti intrinseci di ogni Esistenza, in luci ed ombre che la percezione personale sa riconoscere come un tutt'uno di sé, si intrecciano in maniera inestricabile per bagliori persistenti, questi sì, d’intagli poetici nella dura scorza di un disilluso esserci, in lotta con un volersi affermare vincente nella realtà non più silenziosa.
Io, esposto come cartellone pubblicitario,/ come un Cristo appeso al muro,/ attendo il giorno in cui la verità tornerà/ trasfusa in me,/ per tornare a sognare illusioni. (“Vivo la mia illusione”)

Andrea Leonelli, in questa sua preziosa raccolta poetica, riesce a prendere per mano il lettore e portarlo nelle scomode vie del suo camminare il mondo e regalargli panorami inusuali nei quali rispecchiarsi a propria volta, facendogli ritrovare il comune denominatore di ogni esistenza che possa essere supportata dall'incanto e dal disincanto di uno sguardo oltre, fino alle profondità di un battito mai scontato.

Le Penombre, ne sono convinto, sono splendidamente illuminanti e Andrea Leonelli è un poeta vero che non si può non riconoscere e apprezzare in questo suo intimo e prezioso condividersi.
E per tutto questo, amico mio, grazie!


Oliviero Angelo Fuina


martedì 25 giugno 2013

Se mano matricida non fermiamo

[La copertina dell'antologia della prima Ragunanza di Poesia]

Anche lo sguardo più non mi appartiene
sotto un cielo d'orizzonte antracite
il suono sepolcrale dei miei passi
incide disarmato nel cemento

Dov'è che abbiamo perso l'equilibrio
sulle ampie zolle a base della vita?
Ed ora, sulle lame più invasive,
strisciamo il cuore per non stare in piedi

Riarsa è la mia gola e asciutte mani
nel calice d'infanzia a dissetarmi
distolgo bocca al pianto della valle
che bagna la discarica sul viso

Sconfitto abbasso il capo ai miei fratelli
da sterili radici, avvelenate,
con fronde disadorne da ogni afflato
vedendo in loro specchio al mio abitare

Scegliendo nel progresso il nostro Credo
abbiamo accantonato il vero volto
di terra che ci è Madre nell'amore
che tacita ci lascia ad empie scelte

I figli che domani avremo in dote
il prezzo pagheranno a nostro conto
già orfani di un grembo più capace
se mano matricida non fermiamo.



(Poesia inserita nell'antologia "Sulle orme di Christina di Svezia" - Prima Ragunanza di Poesia - in qualità di collaboratore di Liber@rte)

Il dono delle donne


Dovrebbero già nascer con medaglia
per quei sorrisi al mondo in dotazione
per l'altra guancia, in lacrime, celata
per quei capaci abbracci in fermo amore.

Di ogni grande uomo o così detto
c'è sempre una madre al suo restare
miracolo di vita nel portento
di vita in grembo, culla del divino.

Il cielo è dimezzato senza i gesti
silenti, a sussurrare ciò che conta
un fiore che non smette di fiorire
quand'anche il tempo veste i propri inganni.

E' alchemico ingrediente d'accoglienza
è curva dolce in rette perigliose
è quel profumo a ingolosire vita
è armonico equilibrio nei frattali.

La lotta le appartiene in retrovia
senza ostentar vittoria nel buon senso,
è impeto creativo in ali grandi
solcando un mondo degno di sorrisi.

Empatica, il dolore lei trasforma
in caldo sprone d'anima a rialzare
è il filo d'ogni trama a disegnare
per quel disegno a inneggiare il cuore.

E' il calice del nettare cercato
il ponte a risalire in vero grembo
l'intero senso di riferimento
il rosa di ogni immenso arcobaleno.

07/05/13

(inedito)

mercoledì 19 giugno 2013

Mamma


Solo gli occhi si alternano di luce
fragile corpo che non ti appartiene
leggera come piuma nella brezza
pesante la distanza dei ricordi;

le ossa che trafiggono lenzuola
feriscono pupille impreparate
e cerco nelle forme spigolose
il morbido giaciglio di un sorriso.

E adesso che ho bisogno di un consiglio
recidi il mio cordone fatalmente
ma è tuo soltanto il volo d'aquilone
nel cielo di una luce che guarisce.

Imbroglio il tempo con le mie illusioni
parlandoti di giorni a te preclusi
innalzo palafitte sui pendii
di dune fra  tempeste d'acre sabbia

e trema la mia mano sul tuo viso
cercando l'attenzione di uno sguardo
vorrei parlarti ancora della vita
che un po' mi togli se tu non mi parli.

E sgrano ore di contraddizione
volendo salutarti e non lasciarti.

(Agosto 2008)

- Inedito -


martedì 18 giugno 2013

Stanotte nemmeno la sigaretta è più una sigaretta


(18 Giugno 2013. h.03.15)

E' notte. Eccomi qui nel mio solito rituale di penna e foglio, nella mia consueta buonanotte a me stesso. Ma questa volta non c'è il silenzio amico. No, non parlo di quello ambientale, dato che il Liga, proprio ora, sta gridando di liberarci dal male, in latino, dalle frequenze di una nota "Radio-visione". Quello non conta quasi mai. E' ininfluente.
Parlo di quel silenzio nel quale mi diletto ad estrarre parole di senso intimo e sconosciuto, almeno fino al mio dipanarle sul bianco che apparecchia la mia vista.
E' questo silenzio che stanotte manca. Ora c'è invece un rumore di fondo che non riesco a districare e attutire.
Intuisco, in questi disturbi, alcune domande ripetitive che una parte di me pare abbia preso a formularsi, e molte di queste hanno ancora la voce di mio padre. Già, mio padre: lo scomodo specchio che riusciva sempre a smascherarmi. Lui non c'è più ma la sua voce ormai pare appartenermi indelebile.
Troppe le domande ma posso forse riassumerne qualcuna nella più semplice di tutte: cosa vuoi fare da grande?
E la mia obiezione che forse ho ancora da imparare prima di tutto a crescere è la prima diga, la prima lamiera ridondante contro la quale questa domanda sbatte con forza.
Ma quando si è grandi, se mai lo si diventa davvero? Non è ovviamente solo una questione anagrafica.
La copertina delle mie "Orme sull'acqua" è tutto il giorno che in molte fotografie rimbalza su pagine aperte dietro ai tanti vetri di tutti e di nessuno.
E penso alle mie parole nate da quelle impronte acquatiche, al fatto che ormai sono libere di seguire mille imprevedibili direzioni e tutte al di fuori del mio controllo e di una mia volontà ad accompagnarle e guidarle.
Orme che ormai sono state lasciate in territori dove la mia pianta dei piedi metaforica mai potrebbe ricalcarle in un accompagnarle protettivo ed indolore.
Sì. E' proprio il non sapere, il non averne il controllo, che lascia quel brusio nel quale la mia notte, stanotte, è meno mia.
O forse è mia in modo più vero e meno addomesticato.
Tutto rifrange sonoramente e tutto tace.
Mi concedo l'ultimo tiro di vapore, che nemmeno la sigaretta è più una sigaretta. Mi arrendo. Ci rinuncio: smetto di cercare di arraffare con dita percettive le parole che stanotte si sono nascoste. O che forse si mostrano diversamente.
Va bene così. Di finto mi basta la sigaretta elettronica.

venerdì 14 giugno 2013

La mia chitarra



Sei corde tese sotto le tue dita
tessendo arazzi d'infinite note
la tua mano corre adesso il mio tempo
sfiorando vibrazioni conosciute

e  tornano gli inciampi di un accordo
nel suono ripetuto e più testardo
nella tua stanza chiudi il mondo fuori
mentre un pensiero canta alla finestra.

Ti ascolto nei riflessi di un passato
a conquistare calli ai polpastrelli
mille spartiti sparsi sopra il letto
mille emozioni ancora da suonare

ed ora sei tu, figlio di quel figlio,
ad imitare il senso scritto d'altri
trovando un'eco a tutte le domande
che ancora non riesci a formulare

e imbrogli con le note ogni tuo pianto
tacendo quel lucore nei tuoi occhi
la mia chitarra adesso è nel tuo abbraccio
la mia risposta vola nel tuo cielo.

15/05/13

(inedito)

lunedì 10 giugno 2013

Presentazione ufficiale di "Orme sull'acqua"

Presentazione ufficiale di “Orme sull’acqua”, silloge poetica di Oliviero Angelo Fuina

giu 10, 2013 by 
Presentazione ufficiale di “Orme sull’acqua”, silloge poetica di Oliviero Angelo Fuina
La Collana Castalide di ArteMuse presenta Orme sull’acqua, silloge poetica di Oliviero Angelo Fuina.
Orme sull’acqua è composta da liriche nelle quali ci sono apparizioni improvvise di paesaggi, ora impervi e densi, ora incantati ed effimeri. Angoli di notte e di giorno vestiti da gentili figure, da visioni, da immagini che sono analisi e ricordi di lacerazioni passate o speranze future emerse dall’acqua affascinante e dolorosa. La silloge di Oliviero Angelo Fuina è un pellegrinaggio dell’anima in vari punti, quali l’amore, la notte e il giorno, la madre intesa come donna e terra, punti uniti dall’acqua che è vita. È un raccolto dei frutti maturi dell’uomo che ha passato le stagioni, mutando attraverso le luci e le ombre tipiche dell’esistenza, conferendole saggezza ed esperienza, interpretandola con versi di elevata qualità lirica.
Colui che leggerà Orme sull’acqua ascolterà una rapsodia leggera e intensa, frutto della grande purezza intellettuale e della straordinaria sensibilità che caratterizzano Oliviero Angelo Fuina, un vero poeta dei nostri giorni. (Dalla prefezione di Elisabetta Bagli)
Oliviero Angelo Fuina nasce in quel di Neuchâtel (Svizzera) nell’agosto del 1962 da famiglia italiana. Da sempre ristoratore, come da tradizione familiare, trova soddisfazione personale in ciò che la parola può portare in dote comunicativa. Lettore compulsivo fin da bambino, trova quasi subito naturale sfogo emotivo nella scrittura personale, nonostante il frequentare – imposto – di corsi professionali alberghieri e istituti tecnici commerciali. Solo nel 2005 comincia a proporre le sue composizioni poetiche sul web e ne ha un riscontro più che buono. Viene inserito con merito in molte antologie poetiche. In quel periodo comincia a cimentarsi anche in racconti brevi e scopre che anch’essi vengono accolti favorevolmente. Nel 2007 pubblica una prima silloge poetica che intitolaPoesie in cuffia, sulla suggestione di brani musicali “immortali”. Oliviero Angelo da allora si dedica ancora con più dedizione allo scrivere creativo. Solo nel 2011, però, pubblica quanto aveva scritto nel corso di quegli ultimi anni incentivato da siti che permettono l’autopubblicazione con facilità. E così nascono le seguenti raccolte poetiche pubblicate in proprio: Scampoli e AssenzeCieli di cartaVocali in apneaLido Venere – conchiglie all’animaBlocco Note e Titoli di coda. Nello 2011 pubblica anche i suoi racconti brevi, intitolandoli Corti-Circuito (racconti brevi dal filo scoperto). Sull’onda di questo volersi proporre, pubblica anche C’è tempo e tempo – Improbabile Romanzo, scritto realmente quasi vent’anni prima, e Mah!,  una serie di microcosmi paralleli di pensieri impostati su calembours e giochi di parole, che ricordano i giochi sperimentati dal gruppo Oulipo, ideato in Francia negli anni sessanta da Raymond Queneau. Prima di tutto questo pubblicare compulsivo, con l’amica e scrittrice Maria Capone (in arte Adrena) aveva scritto nel 2006 Il bacio di vetro, romanzo pubblicato nel 2011. L’uomo nudo con le mani in tasca è l’ultimo lavoro pubblicato da Oliviero Angelo, un’autobiografia nella quale espone il suo percorso interiore di crescita spirituale. Nel 2013 entra infine a far parte del Gruppo Editoriale D and M, nella divisione ArteMuse. Sposato e padre di un figlio di 13 anni, vive a Oggiono, in provincia di Lecco, ai bordi di un lago che caratterialmente ben lo rappresenta.
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mercoledì 5 giugno 2013

La scuola dell'ammuìna - Introduzione di Erri De Luca


Erri De Luca - La doppia vita dei numeri
Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano (2012)
ISBN 978 -88 - 07 - 01916 - 6

["E' capodanno e Napoli carica le batterie per la pirotecnica finale. In una stanza giocano a tombola in due, fratello e sorella, ma apparecchiano per quattro. E le presenza arrivano, da un oltremare del tempo."]


"La scuola dell'ammuìna" 
(Splendida introduzione di Erri De Luca")


"Il teatro è un racconto in cui scompare lo scrittore. Non può scrivere: "Era una bella nottata di luna". Lo deve dire uno dei personaggi. Gli avvenimenti sono raccontati e svolti dalle loro voci. Il teatro espelle il narratore dalla pagina, la parola passa in esclusiva a chi la pronuncia.
Gran parte di quello che metto per iscritto ha il precedente nella voce, proviene da un ascolto. Le storie che racconto affiorano all'orecchio, prima di ridursi al fruscio della penna sul quaderno a righe. Hanno il punto di partenza in forma di teatro personale, che si svolge alla lentezza della mano e della trascrizione.
Mi appassiona il dialogo, lo scambio di battute dove la parola è palla da biliardo spinta a rimbalzare tra le sponde, senza governo sulle sue carambole. Nel dialogo mi capita di dare torto a me stesso, di trovare impreviste obiezioni, benvenute. Sviluppo lo spirito di contraddizione, indispensabile anticorpo di un isolamento.


Il dialogo un tempo è stato uno strumento della filosofia: da Platone a Giordano Bruno i dialoghi mettevano in scena un contradditorio tra una tesi e l'antitesi, conducendo a sintesi il lettore. Asservito in questo modo a una dimostrazione, il povero dialogo si svolgeva ammanettato di fronte a un tribunale invisibile. Invece dev'essere una creatura allo stato brado, il dialogo, e le sue parti possono avere tutte torto o venirsi incontro sulla spinta di istinti, sentimenti e altre variabili. Dialogo succede tra uno scoglio e le ali che ci fanno il nido, tra il seme e la terra, tra le nuvole e il vento, tra le onde e una barca in avaria, dialogo è lo stacco di una foglia in autunno fino all'ultima oscillazione e alla sua resa al volo. Dialogo non è un interrogatorio.
Monologo è quello del fuoco nel camino, che borbotta, sputa, scricchiola, soffia e fa una ninnananna, una preghiera, un'arringa di avvocato difensore.
Coro è il mercato, non il grande magazzino dove il cliente è incolonnato e muto con il suo carrello, ma quello all'aperto dove si grida il vanto della merce e si contratta il prezzo.
Vengo da una città che suona a orecchio. Napoli è ammuìna. Non è voce solo dialettale, esiste in italiano "ammoinare", fare moine. Napoli è ammuìna di voci e di conversazioni che si svolgono contemporaneamente e il cittadino sa partecipare di tutte quelle intorno. Mi meraviglio quando in televisione due si danno sulla voce e gli altri non riescono a capire. A Napoli tutti si danno sulla voce e ognuno può seguire una dozzina di conversazioni. Questione di esercizio: fanno così pure i buoni scacchisti giocando più partite alla volta e senza bisogno di scacchiera.
In un posto affollato l'orecchio è l'organo maestro. La vista, poveretta, è circondata e può solo sbirciare un poco innanzi. Meglio sa fare il naso, che può sapere quello che succede alle spalle. Superiore è l'orecchio, che riceve anche attraverso i muri. Perciò Napoli è stata gremita di teatri, quanto la Varsavia ebraica che parlava yiddish. Tra numerosi in poco spazio si sviluppa il teatro, per necessità di mimica e di scambio. L'ammuìna è sollecitata dalla densità.
Sulle navi borboniche era perfino un ordine dato ai marinai: "Facite ammuìna". Allora quelli che stavano a prua correvano a poppa e da poppa correvano a prua, mentre quelli che erano in basso alle vele salivano e quelli in alto scendevano. "Facite ammuìna" serviva a dare da lontano l'impressione di febbrili manovre. Il teatro napoletano è scuola di ammuìna.

A Napoli la mimica è inflessibile, non si può sbagliare l'angolo del polso, il raggruppamento delle dita, il ritmo sincopato della mossa che deve significare: "Tu che bbuo'?", tu che vuoi? Il forestiero si tradisce subito, prima che apra bocca, non la sa eseguire. "Tu che bbuo'?" è un'esecuzione e lascia minimo scampo di risposta.
Cresciuto col teatro sul lastrico di marciapiedi e soglie, mi sono trovato iscritto all'anagrafe del posto più da spettatore che da cittadino. Persino nei litigi sanguinosi mi facevo distrarre dall'esibizione rituale. Dovevo concentrarmi per reagire. Perciò ne ho prese più di quelle date. Lo spettatore a Napoli paga sempre un prezzo.

Dopo "Morso di luna nuova", storia di tre atti e di un ricovero, durante i bombardamenti su Napoli dell'estate del '43, rieccomi sul posto con "La doppia vita dei numeri". La narrativa di quella guerra l'ho ricevuta in napoletano, perciò me ne sono infettato a fondo. Quel dialetto mi ha accordato il sistema nervoso, facendomi suonare in corpo le sue pizzicate. L'italiano, silenzioso e seguente, mi scuote meno. "Morso di luna nuova" contiene le mie sole pagine in napoletano.
"La doppia vita dei numeri" proviene dalle feste nella mia piccola famiglia d'origine, quando quei pochi c'erano tutti. La sera di capodanno si allestiva la tombola e accadeva il prodigio di estrarre dal canestro dei numeri una folla di storie in una lingua mista.

Eduardo De Filippo: nessun napoletano nato nel 1900 può prescindere da lui. Dei suoi innumerevoli personaggi conservo la commozione sorridente per un paio: zi' Nicola de "Le voci di dentro", che si esilia dalla famiglia in un soppalco e da lì comunica attraverso un alfabeto Morse fatto di petardi, decifrati solo dal nipote. Zi' Nicola, eremita in mezzo all'ammuìna, incarna la santità laica e sdegnata, la più valorosa virtù napoletana.
L'altro mio preferito è Michele Murri di "Ditegli sempre di sì", che rientra nella vita civile dopo una permanenza in manicomio. Per sua necessità deve prendere tutto alla lettera, aggrappandosi da naufrago alle parole per non farsi sommergere dall'uso assurdo che ne fanno i sani. Combina equivoci, guai, infine promuove una riconciliazione tra due fratelli, prima di rientrare nel camerone degli allontanati. Ho riso come tutti fino all'indolenzimento degli addominali con le situazioni di Eduardo, ma di più resto affezionato a questo paio di ammaccati tenaci.

De Filippo è stato autore, e molto di più sconfinato attore. Per me sta sul gradino di Chaplin, senza poter aggiungere un terzo a loro due. Napoli è stata e resta in cartellone per le scene del mondo grazie a lui. Come ogni sconfinato non ha lasciato scuola, successori. Chi osa ricalcarlo non raggiunge il rango di pappagallo, creatura capace di buona imitazione.
A che ne stanno i miei conti con Eduardo? In attivo per me, che resto suo incantato spettatore. Non ho presso di lui alcun termine di comparazione e accostamento: ammiro e basta.
I fantasmi di "La doppia vita dei numeri" non sono parenti dei famosissimi "questi" di Eduardo. I suoi erano avanzo di superstizione, il mondo già li aveva licenziati. Quelli della mia notte di capodanno sono invece pronti a farsi convocare, a giocare una partita a tombola, seduti alla tavola dei vivi.
I fantasmi rispondono a chi ha bisogno di loro, come i santi. Le donne conoscono la formula.
Non è segreta, è una loro saggezza ben piantata in cuore, sede più sicura del cervello. "Il cuore è un indovino" dice un proverbio russo. E uno in Yiddish conferma: "Il cuore è un mezzo profeta". Mi convince qualche frase collaudata da esperienza di popoli e generazioni, anziché la sentenza di qualche maestro di ragionamenti.
Dei filosofi ho letto volentieri quelli prima di Socrate, scrutatori del mondo e delle sue energie. La storia del pensiero non la intendo come evoluzione. Hegel non è più adulto di Talete. Lo stesso vale per l'Illuminismo: servì a scrollare colonne e sgarrettare il palazzo dei Filistei, ma insieme a Sansone ci è finito sotto. I fantasmi non possono essere abrogati. I Lumi non li hanno cancellati, piuttosto li hanno custoditi nell'ombra. In queste pagine vengono in visita e il primo riguardo verso l'ospite consiste nel non mostrare sorpresa. La loro presenza è rara come la neve al Sud, che arriva a fiocchi e si congeda in gocce.
Intorno, la città di capodanno sta celebrando il suo incendio rituale."

Erri De Luca


domenica 2 giugno 2013

Così i tuoi occhi - Da un incipit di Cesare Pavese


"I mattini passano chiari e deserti.


Così i tuoi occhi s'aprivano un tempo"
ed algido respiro ti ammantava
come vela verso inesplorati lidi
librando le speranze ancora infanti
e palpiti del vergine tuo ardore.


Allo zenit del sole asceso lesto
le urgenze palpitavano mature
come onda di spighe biondeggianti
e al vento della vita tu danzavi
fra le messi affilate degli abbracci.


Giunto il bacio vermiglio all'orizzonte
svanendo le illusioni della luce
restava fra le mani il mio sospiro
ancora sulla pelle le promesse
che il sale di partenza ha evaporato.


- I mattini passano chiari e deserti.
Così i tuoi occhi nella mia memoria -


07/02/08
(Inedito)

Da "Racconti del Mattino - Bambini del Lario"


Breve stralcio tratto da: "Il mendicante (1967)"



(...)
- E all’asilo come va ? Raccontami qualcosa – Chiese Stella mentre finiva di abbinare un numero ad un rotolo di carta igienica, già pregustando il momento di divertimento alla ipotetica vincita proprio di quel premio alla loro pesca di beneficenza domestica
- Bene...si...anche se preferisco quando sto a casa...
- A me non era mai piaciuto andarci, per quell’unico anno che ci sono andata, dopo che siamo  arrivati dalla Svizzera. Tu eri appena nato Ma...dimmi...Suor Teresina c’è ancora?
- Si, c’è ancora. Allora l’hai conosciuta anche tu ?!? – rispose Livio sorpreso non avendo mai considerato che anche sua sorella fosse andata proprio al suo Asilo.
- Purtroppo! Quella, poi, non ho mai potuto sopportarla. Era proprio cattiva! Si divertiva a mettermi sempre in castigo... Meno male che c’era la Madre Superiora! Quando Suor Teresina mi metteva in castigo qualche volta riuscivo a farmelo togliere da lei
- E’ vero!... Anche a me Suor Teresina mi fa stare in piedi con la sedia in testa nella sala coi banchi e non ho mai fatto niente di male!  Secondo lei, perché parlo o mi muovo quando si deve dormire.. Ma come si fa a dormire a braccia conserte con la testa sul banco?!? Io poi non ho mai voglia di dormire!
- E’ vero!!! Che incubo il sonnellino pomeridiano! Per me ce lo facevano fare per non far niente loro! Avrei voluto che provassero anche loro a dormire per forza così! – Esclamò ancora stizzita Stella.





L’Asilo Comunale si trovava sopra Via Dante, a Molina. Un grande e alto cancello verde compatto e chiuso  ne era l’entrata. Da dentro non si poteva sbirciare fuori, nemmeno per rubare infinitesimali attimi di libera normalità. Appena superato il cancello dell’asilo c’era un ampio spiazzo tutto in ghiaia. L’ingresso vero e proprio all’edificio comunale era proprio di fronte al cancello e vi si accedeva dopo una scala di cinque o sei gradini. Alla sinistra della scala, lungo il muro strullato bianco c’era una panchina in legno che per lo più veniva usata per aspettare i genitori o chi per essi che alle sedici ti venivano a riprendere. Sul lato sinistro dell’asilo, invece, c’era un bel prato verde che verso il retro dell’edificio stesso si affacciava sul Meria. Una parte del prato era adibito a Parco Giochi con uno scivolo, un girello e un’altalena. Ma queste due aree, il prato e il cortile con la ghiaia, erano usate dalle suore esclusivamente per tenere separati i maschi dalle femmine. Non sia mai farli giocare insieme!!!
I bambini con i quali Livio andava più d’accordo erano il Franco Ciabarri, l’Alberto Alippi e il Sandro che abitavano lì vicino, proprio a Molina, ed infine il Fabio di Via Risorgimento.
Alla destra della scala, dopo una decina di metri di parete, l’asilo confinava con le scuole elementari di Molina. Le due strutture erano divise solo da una rete alta in ferro a maglie larghe e durante la ricreazione della scuola, dal cortile dell’asilo potevano vedere tutti gli alunni giocare nel loro di cortile. Come li guardavano con un misto di ammirazione e soggezione!!!  Livio che era già nei Grandi guardava spesso quelli delle scuole con indefinite sensazioni fra il desiderio d’essere già con loro ed il timore di nuovi cambiamenti nella sua consolidata routine.
L’anno successivo sarebbe comunque stato di là a frequentare la Prima.

Va anche detto che grazie all’eccessiva severità e poco buon senso da parte delle suore dell’asilo Livio aveva anche acutizzato le sue personali sensazioni di inadeguatezza, insicurezza e poca stima di sé, avendole metabolizzate come una  propria mancanza. Tutto questo per un suo rientro sbagliato all’asilo da una malattia.




Qualche mese prima era rimasto a casa più di una settimana per una classica malattia infettiva dell’infanzia. Ricordava ancora con piacere il restare a letto a casa sua, da solo il più delle volte, tranne qualche sporadica visita giornaliera da parte della vicina di casa e della zia Vita, giusto per scaldargli il mangiare preparato la sera prima dalla mamma. La madre, infatti, a parte i primi giorni della malattia che era rimasta a casa dal lavoro, per la grande felicità di Livio, non aveva potuto non ritornarci e con tante raccomandazioni al figlio si era organizzata con questa specie di Task Force con vicini e cognata. A lui non dispiaceva restare tanto tempo da solo: aveva la radio, i suoi giochi e le sue fantasie da cavalcare. Gli piaceva inoltre essere sporadicamente coccolato e tutto questo sopperiva a sufficienza  ai pochi momenti di noia.
Come si sentì agitato quando una sera sua madre, trascorsi tre giorni da che si era sfebbrato, gli disse che il giorno dopo sarebbe dovuto tornare all’asilo!
L’indomani mattina si era vestito con gli abiti preparati dalla mamma, che facendo il primo turno, era già al lavoro, si era messo il grembiulino a quadretti bianco azzurri, con il colletto bianco, e preso il suo cestino azzurro di plastica con dentro il tovagliolo nel suo cerchietto portatovaglioli,  le posate, il suo bicchiere in plastica e una merendina per metà mattina, andò da sua zia per bere il latte e quindi già in apprensione s’incamminò verso Molina per recarsi all’asilo, cominciando ad avvertire i primi sensi di colpa per non esserci andato per tutto quel tempo, cioè per essere venuto meno al suo dovere di frequenza!
Erano da poco passate le nove ed il cancello verde era già chiuso, anche se si poteva entrare fino alle nove e trenta. Livio suonò il campanello in punta di piedi e attese col cuore che gli batteva forte. Dopo una eternità il cancello si socchiuse e suor Antonietta s’affacciò.
Notò con sorpresa Livio e gli chiese cosa ci facesse lì fuori. Con timore questi spiegò che era stato ammalato ma adesso era guarito. Burbera, la suora gli chiese se avesse il certificato medico per rientrare e Livio si sentì sprofondare ancora di più nella vergogna, non sapendo nemmeno a cosa si riferisse la suora.
Dal basso dei suoi cinque anni capì solo che senza quella cosa lì non poteva entrare, non lo volevano, e che doveva tornarsene a casa. Sconfitto e inadeguato.
Non fece la strada del ritorno piangendo unicamente per la vergogna di essere visto dai grandi per la strada. Ma dentro si sentiva morire.
Scese fino alla Piazza, girò a sinistra per Via Mazzini e avvilito tornò da sua zia.
Immaginatevi l’angoscia che provò quando trovò chiusa anche la porta della casa di sua zia. Non c’era nessuno! Infatti era Lunedì, giorno di mercato a Mandello, che si teneva ai Giardinetti, giù al lago. Senza sapere cosa fare tornò nella piazzetta, passò davanti all’Orsola e al Bottegone e si sedette sul gradino della merceria della Marina, o meglio, di sua madre, che faceva angolo proprio con Via Dante che saliva a Molina e Via Mazzini stessa. E lì aspettò sperando solo di vedere arrivare qualche persona conosciuta ma nel contempo temendone anche il giudizio per il suo essere fuori posto, al di fuori delle regole e senza giustificazioni.
Dopo parecchio tempo vide arrivare proprio sua zia che a dir poco stupita si fece raccontare tutto, lo riportò con sé a casa ma non fece alcun commento.
Forse era stato perdonato, considerò Livio.

E con spirito più leggero affrontò il resto della giornata.
(...)



20 EVENTI dal 20 - Premio "L'Anima delle parole"

20 EVENTI DAL 20

Premio “L’anima delle parole”

Serata finale di premiazione del concorso Liber@rte.

Nel corso della due giorni di cultura di Cartoceto (PU) “20 eventi dal 20″ si terrà la premiazione finale del concorso di poesia “Liber@rte L’anima delle parole”. La premiazione avverrà la sera del 21 luglio a partire dalle ore 20,30, mentre sabato 20 luglio 2013 ci sarà la presentazione ufficiale di tutti i partecipanti all’Antologia Omonima. Le due giornate saranno contornate da numerosi eventi (mostre fotografiche, di pittura, presentazioni di libri e tantissimo altro). Vista la grande affluenza vi invitiamo a mettervi in contatto con noi tramite l’indirizzo info@animamista.it per informazioni su eventuali strutture per il pernottamento e per dare l’adesione alla partecipazione degli eventi in corso.
N. B.
Tutti gli autori selezionati per l’antologia Liber@rte “l’Anima delle parole” che volessero rilasciare un’intervista da inserire nei magazine, blog e media utilizzati per le campagne pubblicitarie possono inviare la propria richiesta a info@ilcircuitoeditoriale.it


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