Erri De Luca - La doppia vita dei numeri
Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano (2012)
ISBN 978 -88 - 07 - 01916 - 6
["E' capodanno e Napoli carica le batterie per la pirotecnica finale. In una stanza giocano a tombola in due, fratello e sorella, ma apparecchiano per quattro. E le presenza arrivano, da un oltremare del tempo."]
"La scuola dell'ammuìna"
(Splendida introduzione di Erri De Luca")
"Il teatro è un racconto in cui scompare lo scrittore. Non può scrivere: "Era una bella nottata di luna". Lo deve dire uno dei personaggi. Gli avvenimenti sono raccontati e svolti dalle loro voci. Il teatro espelle il narratore dalla pagina, la parola passa in esclusiva a chi la pronuncia.
Gran parte di quello che metto per iscritto ha il precedente nella voce, proviene da un ascolto. Le storie che racconto affiorano all'orecchio, prima di ridursi al fruscio della penna sul quaderno a righe. Hanno il punto di partenza in forma di teatro personale, che si svolge alla lentezza della mano e della trascrizione.
Mi appassiona il dialogo, lo scambio di battute dove la parola è palla da biliardo spinta a rimbalzare tra le sponde, senza governo sulle sue carambole. Nel dialogo mi capita di dare torto a me stesso, di trovare impreviste obiezioni, benvenute. Sviluppo lo spirito di contraddizione, indispensabile anticorpo di un isolamento.
Il dialogo un tempo è stato uno strumento della filosofia: da Platone a Giordano Bruno i dialoghi mettevano in scena un contradditorio tra una tesi e l'antitesi, conducendo a sintesi il lettore. Asservito in questo modo a una dimostrazione, il povero dialogo si svolgeva ammanettato di fronte a un tribunale invisibile. Invece dev'essere una creatura allo stato brado, il dialogo, e le sue parti possono avere tutte torto o venirsi incontro sulla spinta di istinti, sentimenti e altre variabili. Dialogo succede tra uno scoglio e le ali che ci fanno il nido, tra il seme e la terra, tra le nuvole e il vento, tra le onde e una barca in avaria, dialogo è lo stacco di una foglia in autunno fino all'ultima oscillazione e alla sua resa al volo. Dialogo non è un interrogatorio.
Monologo è quello del fuoco nel camino, che borbotta, sputa, scricchiola, soffia e fa una ninnananna, una preghiera, un'arringa di avvocato difensore.
Coro è il mercato, non il grande magazzino dove il cliente è incolonnato e muto con il suo carrello, ma quello all'aperto dove si grida il vanto della merce e si contratta il prezzo.
Vengo da una città che suona a orecchio. Napoli è ammuìna. Non è voce solo dialettale, esiste in italiano "ammoinare", fare moine. Napoli è ammuìna di voci e di conversazioni che si svolgono contemporaneamente e il cittadino sa partecipare di tutte quelle intorno. Mi meraviglio quando in televisione due si danno sulla voce e gli altri non riescono a capire. A Napoli tutti si danno sulla voce e ognuno può seguire una dozzina di conversazioni. Questione di esercizio: fanno così pure i buoni scacchisti giocando più partite alla volta e senza bisogno di scacchiera.
In un posto affollato l'orecchio è l'organo maestro. La vista, poveretta, è circondata e può solo sbirciare un poco innanzi. Meglio sa fare il naso, che può sapere quello che succede alle spalle. Superiore è l'orecchio, che riceve anche attraverso i muri. Perciò Napoli è stata gremita di teatri, quanto la Varsavia ebraica che parlava yiddish. Tra numerosi in poco spazio si sviluppa il teatro, per necessità di mimica e di scambio. L'ammuìna è sollecitata dalla densità.
Sulle navi borboniche era perfino un ordine dato ai marinai: "Facite ammuìna". Allora quelli che stavano a prua correvano a poppa e da poppa correvano a prua, mentre quelli che erano in basso alle vele salivano e quelli in alto scendevano. "Facite ammuìna" serviva a dare da lontano l'impressione di febbrili manovre. Il teatro napoletano è scuola di ammuìna.
A Napoli la mimica è inflessibile, non si può sbagliare l'angolo del polso, il raggruppamento delle dita, il ritmo sincopato della mossa che deve significare: "Tu che bbuo'?", tu che vuoi? Il forestiero si tradisce subito, prima che apra bocca, non la sa eseguire. "Tu che bbuo'?" è un'esecuzione e lascia minimo scampo di risposta.
Cresciuto col teatro sul lastrico di marciapiedi e soglie, mi sono trovato iscritto all'anagrafe del posto più da spettatore che da cittadino. Persino nei litigi sanguinosi mi facevo distrarre dall'esibizione rituale. Dovevo concentrarmi per reagire. Perciò ne ho prese più di quelle date. Lo spettatore a Napoli paga sempre un prezzo.
Dopo "Morso di luna nuova", storia di tre atti e di un ricovero, durante i bombardamenti su Napoli dell'estate del '43, rieccomi sul posto con "La doppia vita dei numeri". La narrativa di quella guerra l'ho ricevuta in napoletano, perciò me ne sono infettato a fondo. Quel dialetto mi ha accordato il sistema nervoso, facendomi suonare in corpo le sue pizzicate. L'italiano, silenzioso e seguente, mi scuote meno. "Morso di luna nuova" contiene le mie sole pagine in napoletano.
"La doppia vita dei numeri" proviene dalle feste nella mia piccola famiglia d'origine, quando quei pochi c'erano tutti. La sera di capodanno si allestiva la tombola e accadeva il prodigio di estrarre dal canestro dei numeri una folla di storie in una lingua mista.
Eduardo De Filippo: nessun napoletano nato nel 1900 può prescindere da lui. Dei suoi innumerevoli personaggi conservo la commozione sorridente per un paio: zi' Nicola de "Le voci di dentro", che si esilia dalla famiglia in un soppalco e da lì comunica attraverso un alfabeto Morse fatto di petardi, decifrati solo dal nipote. Zi' Nicola, eremita in mezzo all'ammuìna, incarna la santità laica e sdegnata, la più valorosa virtù napoletana.
L'altro mio preferito è Michele Murri di "Ditegli sempre di sì", che rientra nella vita civile dopo una permanenza in manicomio. Per sua necessità deve prendere tutto alla lettera, aggrappandosi da naufrago alle parole per non farsi sommergere dall'uso assurdo che ne fanno i sani. Combina equivoci, guai, infine promuove una riconciliazione tra due fratelli, prima di rientrare nel camerone degli allontanati. Ho riso come tutti fino all'indolenzimento degli addominali con le situazioni di Eduardo, ma di più resto affezionato a questo paio di ammaccati tenaci.
De Filippo è stato autore, e molto di più sconfinato attore. Per me sta sul gradino di Chaplin, senza poter aggiungere un terzo a loro due. Napoli è stata e resta in cartellone per le scene del mondo grazie a lui. Come ogni sconfinato non ha lasciato scuola, successori. Chi osa ricalcarlo non raggiunge il rango di pappagallo, creatura capace di buona imitazione.
A che ne stanno i miei conti con Eduardo? In attivo per me, che resto suo incantato spettatore. Non ho presso di lui alcun termine di comparazione e accostamento: ammiro e basta.
I fantasmi di "La doppia vita dei numeri" non sono parenti dei famosissimi "questi" di Eduardo. I suoi erano avanzo di superstizione, il mondo già li aveva licenziati. Quelli della mia notte di capodanno sono invece pronti a farsi convocare, a giocare una partita a tombola, seduti alla tavola dei vivi.
I fantasmi rispondono a chi ha bisogno di loro, come i santi. Le donne conoscono la formula.
Non è segreta, è una loro saggezza ben piantata in cuore, sede più sicura del cervello. "Il cuore è un indovino" dice un proverbio russo. E uno in Yiddish conferma: "Il cuore è un mezzo profeta". Mi convince qualche frase collaudata da esperienza di popoli e generazioni, anziché la sentenza di qualche maestro di ragionamenti.
Dei filosofi ho letto volentieri quelli prima di Socrate, scrutatori del mondo e delle sue energie. La storia del pensiero non la intendo come evoluzione. Hegel non è più adulto di Talete. Lo stesso vale per l'Illuminismo: servì a scrollare colonne e sgarrettare il palazzo dei Filistei, ma insieme a Sansone ci è finito sotto. I fantasmi non possono essere abrogati. I Lumi non li hanno cancellati, piuttosto li hanno custoditi nell'ombra. In queste pagine vengono in visita e il primo riguardo verso l'ospite consiste nel non mostrare sorpresa. La loro presenza è rara come la neve al Sud, che arriva a fiocchi e si congeda in gocce.
Intorno, la città di capodanno sta celebrando il suo incendio rituale."
Erri De Luca
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