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Eccomi negli ultimi intensi
capitoli di questo Libro/Manifesto di Pablo.
E per non smentirsi, Pablo ci
fa rimettere in discussione tutto. Anche il presunto "certo"
precedente.
Rendié, in macchina con
Regina, appena usciti dal party, ripercorre con onestà interiore il suo
sentimento per lei. Quasi un pretesto per una intrigante disamina tra i due
pianeti così dissimili, proprio come se appartenessero a due universi diversi,
che sono l'uomo e la donna. Ed è ovviamente quest'ultima ad uscirne vincitrice
nella sua splendida e unica complessità.
"Di una diversità
totalmente profonda e imperscrutabile da far timore persino ai viaggiatori
dell'abisso". L'uomo immaginato come un libro aperto di una banalità
primitiva, la donna "matematica e machiavellica, umorale, contorta,
volubile di pensiero, romantica, sessuologa, imprevedibile, severa, zuccherosa,
possessiva e, allo stesso tempo, selvatica."
Un proiettile, sintetizza
splendidamente, "impazzito che non seguiva nessuna traiettoria balistica,
rimbalzava, detonava e ritornava in canna." Palese l'inutilità di cercare
di capirla, potevi solo amarla o detestarla.
Nel suo osservarla taciturna,
Rendié la percepisce distante, pur accanto a lui. Qualcosa, è ovvio, non va. Si
chiede di conseguenza in cosa ha sbagliato. Qual è il passaggio che sta
determinando una discrepanza di risultato. Fedele a se stesso Rendié reagisce e
affronta il disagio a suo modo, schiavo del suo cliché. Schiavo di una recita, di un ruolo, che ormai lo
identificava anche a se stesso.
Ecco palesarsi un ulteriore
limite del pianeta uomo: credere che ogni cosa fosse giusta e perfetta. Ma così
ovviamente non è. Non con Regina.
Alla fine Regina, si limita a
rivelargli, chiedeva solo che lui le avesse provato a raccontare di lui e non
della sua maschera collaudata per quei frangenti e quella specifica umanità.
Per non riuscire ad essere
davvero se stesso, al di fuori delle sue cicatrici, la perde.
"Un alunno troppo sicuro
della lezione studiata a casa, smascherato e umiliato alla cattedra della
professoressa."
E' un vero e proprio
"salto quantico", questo, per il nostro Rendié. Un trovarsi
catapultato dentro un ottava superiore!
Lui che pensava di avere tutto
avendo "ritrovato" Regina, di colpo viene smentito dall'esistenza
stessa e perde di colpo lei, dopo aver già perso il lavoro e, poco prima, aver
"perso" Gerard, l'amico già da lui catalogato come parte affine di
umanità non mediata, consegnatosi anche
lui ad una resa personale per comodità di scelta esistenziale. O per non aver
scelto di affermarsi scomodamente. Al pari del resto dell'umanita di questo
arido deserto.
E Rendié stesso si rende
conto, in una ultima riassuntiva considerazione, dell'evaporarsi di tutte le
sue certezze di fronte a quell'unico e ultimo disconoscimento da parte di
Regina, di quell' "anima gemella" riconosciuta. Come se non bastasse,
in questo momento topico della sua vita - e in questo decimo capitolo -, da una
puttana che gli chiede di farle accendere una sigaretta, viene a sapere che
"Nadine la meretrice" (ricordate? Quella con l'anima così sporca
di vita da andarne fiera?) non c'è più.
Ha dismesso la sua indipendenza per consegnarsi prigioniera ad un compagno
benestante e "pappone" che dispone di lei come più gli pare.
Tante le gocce ad unirsi allo
"tsunami" che stava già facendo traboccare il suo vaso! Rinnegato e
sconfitto, prevalentemente da quelle certezze che l'avevano plasmato monocorde,
decide di ripudiare "strafottente" tutto il sistema e l'umanità
perdendosi nell' incoscienza dell'alcool e scegliendo di abbandonare la vita
"in superficie", lasciando il suo appartamento e l'umanità insita che
con esso aveva in dote.
Nella sua immediata volontà di
bere qualcosa "insieme agli umani", si ritrova quasi come epilogo predestinato
con "Al il clochard". Dalla velata promessa di fermarsi "solo
quella sera" scopriamo che passano venti mesi! Mesi sommersi, da
"uomo invisibile", in penombra, distante mille anni luce dal mondo in
superficie. Quel mondo in superficie che l'aveva ormai marchiato come straniero
tra gli stranieri.
E quindi immersione,
"subway", fu.
In questo capitolo l'autore ci
mostra ogni aspetto tecnico e ogni caratteristica catalogabile dell'universo
sottoterra, avvalendosi di intuitive didascalie che mostrano, anche in pieghe
metaforiche sorprendenti, ogni gocciolio significativo e significante.
"Non è solo un posto che ha lo scopo di trasportare da un luogo all'altro.
E' una discesa temporanea tra i dannati e i sopravvissuti, i passeggeri di luce
e i residenti del buio"
Rendié è anche la parte che ci
erudisce sull'umanità più o meno stabile che abita questo "mondo
sotto".
Una carrellata dei residenti,
quindi, ampiamente e argutamente descrittiva che va dai "serial
painters" (i ritrattisti cortesi) che "disegnano viaggiatori casuali,
senza che la loro matita sia ammalata di razzismo.", ai "busker"
(gli artisti suburbani) che "offrono al passante uno spettacolo
d'intrattenimento che, in verità, è pura arte." Elenca poi i senzatetto, i
clochard, gli homeless, quelli chiamati dai più "barboni", gli
"evitati"; nomadi del sottosuolo, "dal collettivismo sociale in
gattabuia volontaria"; vagabondi nello stile di vita, tipo i
"punkabestia". Uomini e donne suburbani, "gli anticristo dei
beni materiali", fuggiaschi domestici, fuoriusciti dalle carceri mentali e
fisiche.
In fondo a questa scala
d'umanità suburbana Rendié mette se stesso, un "visitatore", come i
residenti sotterranei l'avevano appellato.
Rendié ci racconta meglio del
se stesso sommerso, per volontario ripudio, e di questo attuale e ultimo atto
di ribellione in atto. Eclatante.
E del perché da pochi giorni
era diventato leggenda. I giornali infatti avevano sbattuto in prima pagina la
sua storia, la storia di questo "diverso", chiamandolo tra l'altro
"il dinamitardo della subway"; l'uomo barricato nel sottosuolo che
col suo fucile ha bloccato i mezzi di trasporto sotterranei.
In verità Rendié aveva voluto
semplicemente isolarsi anche dagli isolati e sperimentare finalmente un agire
che lo scuotesse dalla sua apatia di quelle giornate e scuotesse nel contempo
l'immobilismo della città.
Barricato all'interno di una
galleria, con una bottiglia di whisky, sigarette e delle gallette. Con anche un
registratore che irradia, all'occorrenza, rumori di scoppio da far desistere
chi volesse farlo desistere.
Rimarchevole la sua
riflessione causale: "Quando siete nel bel mezzo di una battaglia, non
avete scelta: armate le vostre vele contro i venti avversari, poiché viaggiare
di bonaccia vi porterebbe, inesorabilmente, alla deriva."
Come già inteso, molti
giornalisti riescono a intervistarlo e Rendié riesce a far passare i suoi
pensieri, che in quei mesi di esilio sotterraneo ha avuto modo di filtrare e
rendere più efficaci. Rendié stesso ora è un caso. Scomodo per i molti, ma
sempre un caso. L'attenzione, di certo, non gli viene lesinata dai residenti
del "mondo in superficie".
Col pretesto narrativo di
mostrarci la prima intervista di Rendié con un giornalista, l'autore ci offre
una sintesi incisiva ed efficace di ciò che intende comunicare con questo
"Manifesto".
Partendo dalla propria
esigenza di circondarsi di persone vere, rimarca una dignità alla quale l'uomo
non dovrebbe mai rinunciare, stigmatizza quel "buonismo" di chi parla
della fame nel mondo "defecando in un cesso d'oro", il consenso
esterno inutile se si vuole salvaguardare un proprio vivere intensamente, un
orgoglio personale come unico bene che valga, aggiungendo che l'unico razzismo
che condivide è quello avverso all'imbecillità cronica.
Ribadisce a conferma che il
male grave del nostro tempo è l'indifferenza, i cui sintomi sono la superficialità
e l'apatia. A precisa domanda, infine, si dichiara "Idealista
pragmatico", perché gli ideali "sono l'immortalità dei posteri".
Sempre tramite questa
intervista , funzionale espediente narrativo, veniamo a sapere che Rendié è un
poeta. Un poeta suburbano. Estrapolo dal suo intrigante e condivisibile
disquisire che la poesia "accettata" è solo una merce di moda, mera
piaggeria. Ecco il motivo per cui lui, quando scrive, vuole "tradurre il
sangue in parole, il vino in sensi, la rabbia in versi." Una lettura che possa
espellere chi legge dal mondo "e che poi lo risputi sulla Terra".
"Ciò che scrivo",
aggiunge Rendié, "taglia il cielo, gioca con gli angeli, sprofonda nelle
viscere e nasce e muore ancora mille volte."
E il dubbio di una commistione
inestricabile tra il personaggio e l'autore, si rafforza.
Il penultimo capitolo è la
somma quasi completa di ciò che con "Lo scopatore di anime" Pablo ha
voluto regalarci. Lo fa con una "voce" narrante che però ora
riusciamo ad attribuire a Rendié da subito. E a Pablo, ovviamente.
Per pulire lo sporco devi
saperti sporcare. Questa è la premessa, la causa e la conseguenza della
ribellione in atto, nella galleria occupata nella subway.
Questa "voce" sempre
più reale e sempre più stentorea che emerge quasi sonoramente dalle pagine
attacca l'immobilismo intellettuale e l'immobilismo in genere. Ci incita ad
agire, a fare. A dare la giusta azione al pensiero non mediato e dare il giusto
pensiero ad ogni azione. Non lesina sulla cruda essenzialità del suo attacco
verbale e su metafore forti. E' una dettagliata denuncia al "nostro"
limitarci a vegetare durante l'attesa di una morte che detestiamo. Ma tolte le
due già ricordate certezze che non dipendono da noi, e cioè il venire al mondo
e il morire, rimane uno spazio di mezzo dove ci è dato dare un senso al nostro
essere nel mondo e dove fare appieno ciò che fondamentalmente ci viene
richiesto: vivere!
Rendié grida la sua voglia di urlare
la propria arte, la sua voglia di vivere, di sentirsi vivo, prima di morire.
Stigmatizza il demandare l'arte più diffusa a poeti stagionali, o dell'ultima,
se non della prima e unica, ora, e denuncia il compromesso dello
"specchietto delle allodole" degli scribacchini "forgiati nei
laboratori di visagisti editori."
Un mediocre non può parlare la
lingua dei poeti, come dire che un cane non è fatto per stare sui rami degli
alberi.
Ci viene quindi rivelato il
senso del titolo del libro: "Qui sotto siamo solo scopatori di
anime!" Il nostro uomo suburbano ci rivela meglio il senso del suo
"seppellirsi" sottoterra, nel dedalo oscuro del suo voluto esilio,
nella metropolitana. "Meglio due metri sotto (in un doppio senso voluto)
che servi sopra."
Pagine intense nelle quali
dimora tutta la ribellione compresa nello sfogo di Rendié che sarebbe da
copiare letteralmente e tenere sempre nel taschino della giacca. Quello vicino
al cuore. Il messaggio nudo e vero di Pablo, in ultima dovuta analisi.
E' un manifesto urlato con
veemenza, queste pagine strumentali per ribellarsi alla mediocrità e alla
piccolezza umana, al sapersi accontentare, schivando il sudore sporco della
vita per non contaminare l'immagine di sé che si vuole uniformare
all'accettazione di massa, alle addomesticate aspettative, alla ricercata
approvazione esterna e ai troppi "politically correct" che sanno di
spari a salve nella battaglia finale per salvare il mondo.
E alla fine si risolve in un
unico grido a risvegliare gli intellettuali - quelli veri -, a combattere per
affermare e diffondere concetti che scopano l'anima più che accarezzare superficialmente
illusioni comode per non scombussolare il sistema. Un sistema
"cannibale" che si nutre di se stesso, fino all'inevitabile propria
completa ingurgitazione.
L'arte, quella consapevole e
non addomesticata, contro la mancanza d'iniziativa della società civile, per
mantenere inalterata un'apatia non destabilizzante per coloro che ci vogliono
dare e vogliono mantenere una "sopravvivenza" imbrigliata e stantia.
Molto e molto altro ancora
troverete su queste pagine, in questa esplicazione concettuale, che vi farà
propedeuticamente sobbalzare dalle vostre sedie. Poco vi ho detto e molto
avrete ancora da scoprire, anzi, da riscoprire nelle vostre scintille vitali,
regalandovi questo viaggio con tra le mani "il dildo eterico" come amo definirlo io.
Ma dietro a tutte queste
veementi e intestine parole rimane la ferita della sua inadeguatezza con
Regina, la donna alla quale voleva consegnarsi. Ferita che è stata origine di
questo suo ultimo rifiuto sociale. Ora Rendié lo sa che a Regina non avrebbe
potuto consegnare l'uomo che lei meritava, e che lui stesso fingeva di essere,
per salvaguardare maschere frettolose di una strafottenza quasi fine a se
stessa. Questo suo fermentare consapevole nei venti mesi di invisibilità e di
rifiuto, e quest'ultimo pirotecnico atto di ribellione a schiantare l'apatia,
sono stati indubbiamente catartici. Ma questo, sa benissimo Rendié, è un prezzo
che è stato necessario pagare.
"Ci sono femmine che
fanno perdere la verginità al diavolo e donne che gli fanno perdere la
dignità". Questa è Regina, per Rendié: quel chiodo conficcato nella mente,
così ingombrante tra i di lui fantasmi.
Siamo ora all'epilogo
narrativo.
Rendié è sempre chiuso nella
galleria della metropolitana. Dicono e pensano armato. Le forze dell'ordine
sono quasi obbligate a chiamare un negoziatore per risolvere questo
"problema" che grazie ai giornali ha l'attenzione dei tanti altri che
aspettano con l'indice puntato un disastro
risolutivo. Chiamano Max Puzo, uno dei mediocri soltanto messo sopra un gradino
più alto dove poter pontificare con la sua cloaca mentale, in funzione di un
grado o di un ruolo. Max il pulotto, come ci viene presentato.
Il poliziotto e "il profeta",
dunque.
Il negoziatore scende per
risolvere questo fastidio, avendo in cuor suo la soluzione di un colpo in
testa. Ma lo sa che non può eccedere in abusi sbrigativi come vorrebbe.
Brevi e significative
schermaglie e disquisizioni verbali tra i due uomini, faccia a faccia nella
galleria, ci ripresentano punti di vista opposti e ormai, per noi lettori, ampiamente
scoperti.
Non prevale, il guardiano, sul
profeta. Si rende però conto che è disarmato e non rappresenta un pericolo.
Chiude il problema e il confronto e, salutato Rendié, sale e avvisa i militari
che è disarmato e ritorna alle sue comode e ottuse certezze.
Rendié quindi viene scortato
fuori e qui lo aspetta una sorpresa, un colpo di scena, che cambia in lui ogni
prospettiva. Sorpresa che ovviamente lascio ai lettori scoprire quale.
Le migliori parole di chiusura
e di commiato narrativo sono state però già scritte.
Mi limito quindi a salutarvi e
ringraziare di cuore Pablo per ciò che di suo e di prezioso ha condiviso, e
riscriverle in prestito:
"C'è un inizio che è già
la fine e una fine che è solo l'inizio."
"Lo scopatore di
anime", però, ha un ultimo stentoreo colpo di coda.
L'idealismo pragmatico, solo
apparentemente una contraddizione, si manifesta in ultime parole in calce -
riassuntive ed esplicite -, in versi poetici dal lungo respiro che Rendié, e
Pablo per lui, ci offrono a suggello, quasi in una premessa "post
narrativa" a fondersi con un significativo aneddoto editoriale che ha
portato alla pubblicazione di questo Libro/Manifesto e ai ringraziamenti dovuti
dell'autore che confermano le supposizioni circa la sua Regina raccontata,
avallando la sensazione che l’autore si sia traslato copiosamente, in qualche
modo, su Rendié. Di certo con le idee e le emozioni.
Queste poesie, vera chicca
finale, sono poesie di vita, di trincea e di sangue. Poesia di cambi necessari
di sguardi e orizzonti, un urlare in prima persona, esempio concreto di un
predicare, non sterile, l'arte di vivere. Esortando in ultima analisi tutti noi
allo stesso urlo fino a che domicilieremo in queste lande.
Un incitamento ad essere
cenere prima di diventare cenere, a bruciare di vita, ad essere fuoco vivo, a
manifestare l'arte di vivere e non sopravvivere.
Bene. Ho letto "Lo
scopatore di anime". Non mi rimane che accendere la canonica sigaretta del
"dopo".
Oliviero Angelo Fuina